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Meditazioni di viaggio

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Di Nonno Ennio

Domenica di giugno, le tre del pomeriggio, più o meno. Autostrada Aosta-Santhià. Il vento ti arriva addosso di traverso e ti fa sbandare. Impossibile tenere la velocità che avevi preventivato. Ti fermi a fare il pieno e mandi un sms alla dolce (?) metà per avvertire che farai più tardi del previsto e pensi che, all’arrivo, avrà il muso lungo. E ti chiedi chi te lo fa fare, soprattutto alla tua età over sessanta, di andare a cercare i raduni più lontani.

Come ti salta in mente di metterti in sella il venerdì mattina e farti una dozzina di ore di viaggio, in assoluta solitudine, per andare ad incontrare gente mai vista prima a quasi 900 km da casa? E poi rifare la stessa cosa, in direzione contraria, quarantotto ore dopo, con in più gli strascichi di due notti in cui hai dormito pochino e di una serata passata a tirare tardi e bere birra insieme ad altri motociclisti.

Già, chi te lo fa fare? Ovviamente nessuno. Te lo fa fare forse il pensiero che, magari, la pianura padana non sarà la Desert Valley e che il tuo California non sarà l’Electra Glide ma l’emozione di stare in sella ad una moto per andare finché la voglia ti spinge è proprio la stessa, a qualsiasi latitudine, in qualsiasi paese. Te lo fa fare il piacere sconfinato di arrampicarti (con calma, senza dover piegare a tutti i costi) su per i tornanti del Gran S. Bernardo con la neve ai due lati della strada e l’occasionale marmotta che non si sposta più di tanto al tuo passaggio. Oppure l’improvvisa folata che ti arriva alle narici con il profumo del fieno tagliato di fresco in una vallata svizzera.

E poi – perché non confessarlo? – ti spinge quel sottofondo di esibizionismo che ti fa sentire diverso da tanti, che ti fa sentire una punta di orgoglio quando ti guardano con un po’ di invidia quelli che sanno che non ci riuscirebbero mai, a farsi tutta quella strada. La stessa punta di orgoglio che provi quando il ragazzino che ti vede arrivare davanti all’autogrill tira il babbo verso la tua Guzzi e gli fa notare, con la meraviglia negli occhi, che è proprio grossa, e che c’è l’autoradio ed anche il navigatore satellitare. Sì, non è un’Harley e neppure una BMW ma ha tutto e mi ha sempre portato dove volevo senza mai lasciarmi per strada. E sicuramente c’è anche qualcosa in più che mi spinge sulla strada, ma vallo a capire!

Resta solo il fatto che, se pure, verso la fine del viaggio, quando sembrava che casa tua non arrivasse mai, hai maledetto il momento in cui hai deciso di partire, ti basta una notte di riposo per cominciare a fare i piani per la prossima uscita. E ti dici che, in fondo, questa volta saranno poco meno di ottocento, i chilometri da fare, per arrivare in Germania. Ben cento in meno della volta scorsa. Roba che, quasi quasi, invece di partire il venerdì, ti potrebbe bastare partire il sabato e tornare la domenica!

Nonno Enio
California 1100 (carb) ’96 “Italian Eagle”

Con la Guzzi nel cuore

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di Daniela “Mayer” Manzotti

Qual è stato il motivo che mi ha fatto innamorare della Moto Guzzi?

Perché deve esserci un motivo per innamorarsi di una moto?

Perché si cerca sempre di trovare l’inizio di una fedeltà verso il marchio che da una vita è nella storia dell’Italia?

E’ difficile riuscire a spiegare cosa ti spinge a preferire una bicilindrica rispetto ad un’altra moto, spesso si dice che è una questione di pelle, qualcosa che hai già dentro e che cresce insieme alla tua vita.

Forse è il desiderio che ti rimane dentro quando, poco più che bambina e digiuna di motori, vista una California hai detto : <<…da grande voglio QUELLA moto…>>.

Forse è l’avere avuto un padre vespista – 180.000 km di strada con due Vespe – ma nel cuore guzzista convinto, che aveva gli occhi che brillavano di passione quando mi presentai sulla mia Breva nuova…mica una moto qualunque! Penso che gioia per lui aver scoperto che anche Dio viaggia su una Guzzi.

Forse è avere uno zio che, beato lui, ha posseduto un Galletto ed ora a 70 anni, con gli occhi umidi, mi dice : <<…metti in moto, che voglio sentire il suono della belva…>>.

Forse è ascoltare una vecchia signora parlare di tempi passati popolati di Guzzi, del fatto che anche lei le usava, dell’amato fratello volato via con la sua Guzzi, di un padre autoritario ma che sul serbatoio della sua 500 monocilindrica orizzontale l’aveva portata a vedere una gara e lì – bambina di 8 anni – aveva ricevuto un “buffetto” da un certo Tenni.

Forse è che quando dici Guzzi non c’è bisogno di precisare il modello, perché una Guzzi è una Guzzi…e basta.

Forse è che quando sei su una bicilindrica tutti ti chiedono come ti ci trovi, quanto ci viaggi, coma va, ma poi…ti chiedono posti da visitare, luoghi dove fermarsi a mangiare e ti diventano subito amici?

Forse perché non è la moto di tutti e quanto hai un’aquila ti senti e sai di essere un privilegiato, un essere superiore, alla faccia di tutti quelli che smanettano e si mettono in mostra con le loro moto.

Forse…forse…forse sono solo affascinata e di parte e per me Guzzi è bellezza, storia, italianità (anche all’estero la riconoscono TUTTI).

E‘ stata e sarà la moto di un piccolo mondo esclusivo, ma amo questo mondo che non segue le mode, che non ha la due ruote perché fa tendenza, che non cambia moto ogni anno perché la nuova è più figa.

Per finire, cosa può rappresentare meglio una Guzzi se non il suo marchio?

Un’aquila con le ali spiegate, un rapace fiero e con potenti artigli, forte di volare più in alto degli altri e di una vista acuta che sembra immobile nell’aria ma quando vede una preda diventa un “bolide” in cielo : proprio un bell’abbinamento…più mito di così !

Quando i Ricordi

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di Nonnoenio2000
Quando i ricordi si allungano nel tempo.

La mia casa era l’ultima della via, una via ovviamente non asfaltata. Poco più in là quella strada si trasformava in un sentiero che si infilava fra i canneti e conduceva al greto del fiume. Sul fondo di ghiaia di quella strada noi ragazzini giocavamo a pallone oppure a “pindolo”, un gioco strano a metà fra il baseball ed il tiro a segno. Avevo forse dodici anni e la guerra era finita da un decennio ma ancora si avvertivano le sue conseguenze. Soprattutto nella disponibilità di denaro. La certezza di uno stipendio regolare rendeva
benestante, nella considerazione dei vicini, anche la famiglia di un operaio ferroviere ma, se si saliva un po’ nella scala delle professioni, le differenze di reddito familiare diventavano spesso barriere insormontabili. Per molti di noi le due ruote della bicicletta erano l’evasione dal quartiere: ci facevamo anche trenta chilometri in un pomeriggio pedalando su bici pesanti e dure pur di avventurarci sulle colline e in mezzo alla campagna. Giocavamo a pallone sulla ghiaia, come ho detto, e nessuno voleva –
comprensibilmente – fare il portiere: chi poteva essere tanto incosciente da tuffarsi su quel letto di sassi aguzzi per evitare un gol?

Quell’incosciente, con le ginocchia eternamente sbucciate, chissà perché, ero io, anche se, a volte, mi distraevo e Giancarlo mi infilava un gol approfittando del fatto che la mia attenzione era stata deviata dal rumore di un motore. Il dottore che abitava nella villetta d’angolo aveva un “Galletto” ma non era quello il rumore che mi faceva scattare qualcosa dentro: troppo modesto, troppo educato. In fondo il “Galletto” era una moto da famiglia; unica moto ad avere la ruota di scorta così che ci potevi portare la moglie (o la fidanzata) e non rischiare di restare per strada per colpa di una banale foratura. No, quello che mi faceva girare lo sguardo di colpo era ben altro rumore. Pochi anni prima sarebbe stato il battito rallentato di una moto massiccia, enorme, abbandonata da qualche militare americano magari perché sembrava troppo difficile da riparare, abbandonata chissà dove e recuperata chissà come dal cugino di Giancarlo.

Quando la tirava fuori dal cancello di casa noi bambini ci fermavamo a rispettosa distanza, guardando con una punta di timore la testa piumata dell’indiano applicata sulla punta del parafango anteriore, e non ci perdevamo un solo attimo del cerimoniale della messa in moto: la regolazione della levetta dell’anticipo, il “cicchetto” al carburatore, un paio di giri a vuoto della pedivella con il “clic – clic” del ritorno e poi quel gesto che ci era diventato così familiare e sembrava quasi un momento di un balletto: quel salire in alto di tutto il corpo, appoggiato su un solo piede alla stessa pedivella, per poi scendere con forza mentre il primo tossire della marmitta ci teneva con il fiato sospeso. Si sarebbe trasformato, quel tossire esitante, nel pulsare regolare oppure si sarebbe spento quasi con un sospiro di rassegnazione?

Il più delle volte ci nasceva un sorriso a sentire la macchina che prendeva vita e rimaneva lì, col suo “tunf – tunf” in attesa che il cavaliere si riparasse il volto con gli occhialoni e poi salisse in sella. Ma questo accadeva anni prima. A dodici anni l’Indian era sparita, finita chissà dove insieme al cugino di Giancarlo ed il rumore che mi faceva distrarre era ben altro. Non era più il pacioso, cupo battito del bicilindrico americano e non era ancora un ruggito ma aveva una tonalità più secca, più grintosa. Lo si sentiva arrivare da lontano e cresceva man mano che si avvicinava. E poi, di colpo, eccola lì che ti passava a poche decine di metri e facevi appena in tempo a cogliere una visione fugace del motociclista leggermente chinato in avanti con le mani strette sulle manopole ed i capelli scompigliati dal vento. Non era la figura avvolta da un lungo pastrano con la sciarpa avvolta intorno al viso e svolazzante sopra le spalle che Fellini avrebbe più tardi trasformato in una icona in “Amarcord”.

No. Questo aveva una giacca di pelle nera ed un fazzoletto che gli copriva il viso fino al
naso. Ma poi che cosa importava sapere chi fosse o come si vestisse? Quello che importava era che, in basso, di fianco al motore ci fosse quell’enorme disco del volano, rosso e cromato – scherzosamente chiamato l’affettatrice – che girava vorticosamente. Ma soprattutto importava che sul serbatoio ci fosse quell’aquila con le ali spalancate, la stessa aquila che campeggiava sulle carene che vincevano il mondiale in quegli anni. Pochissimi anni dopo, insieme al misterioso motociclista che passava così spesso in quel quartiere, avrei tradito quell’amore per l’aquila e l’avrei sostituito con i due cerchi legati dalla scritta “Gilera”.

Ma come si faceva a restare indifferenti al ringhio di quel motore stranamente battezzato col nome di un satellite lontano e silenzioso: Saturno? L’aquila, improvvisamente, sembrava avere ripiegato le ali incapace di fronteggiare le vibrazioni di quel suono prepotente. Ed anche in pista ormai c’era ben poca gloria da raccogliere. Le immagini di quegli anni erano sempre le stesse: il “Duca” Jeoffrey e Libero Liberati affiancati nella piega di una curva, le carene quasi a contatto, a giocarsi la vittoria. E su quei gusci a forma di uovo, al posto dell’aquila c’erano quei due cerchi parzialmente sovrapposti. Più tardi la passione fu assorbita dal dualismo Benelli-MV abbinato a quello Paso-Ago e l’aquila sembrava essere definitivamente sparita. Ma il seme guzzista piantato nella mia infanzia aveva evidentemente una scorza non indifferente. Un giorno d’estate, alla fine degli anni ’60, l’amico Luciano un giorno mi arriva in sella ad un V7 bianco e lì la vecchia attrazione si rivela fatale. Mi è toccato aspettare un bel po’ di anni prima di poterla soddisfare – all’inizio del 2000 – ma, in fondo, gli amori facili durano poco. Ed invece credo proprio che quella creatura nera coi filetti bianchi che, fra qualche settimana, nel mio garage, sostituirà quella rossa e nera del mio ritorno sotto l’ala dell’aquila, troverà un compagno fedele dispostissimo a soddisfare la sua voglia di chilometri di asfalto, in sole e pioggia, in freddo e caldo finché ……………… la vecchiaia non ci separi.

Il Decimo Incantesimo

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di CinCin

Le previsioni meteo non erano certo delle migliori, quel pomeriggio.

Le stava trasmettendo la radio a valvole e lei ascoltava sonnecchiosamente rannicchiata sul vecchio divano spelacchiato del salotto, avvolta in una coperta di lana, ereditata dalla sua bis-bis-bisavola, che presentava democraticamente un eguale numero di buchi tra quelli dell’antica lavorazione all’uncinetto e quelli delle tarme.La scopa di saggina, era lì, pronta già da qualche giorno, con il sacco pieno di carbone e dolci che avrebbe dovuto consegnare tutti in una notte, perché il magico mezzo di trasporto funzionava solo un giorno all’anno.La guardò pigramente, poi altrettanto lentamente alzò gli occhi verso il cielo, grigio e per nulla invitante.”… e con questo è tutto. Grazie e buonasera”, quel presentatore con la voce da ranocchio, aveva giocato i soldi dell’università del proprio figlio in una partita a poker, il mercoledì scorso.Lei pensò: “Carbone”, spegnendo la radio.

Aveva solo ancora un “incantesimo festeggevole” dei dieci a sua disposizione, prima dello scadere del 6 gennaio. Poi fino al 24 dicembre prossimo, più niente.

Il primo era stato bruciato subito la sera della vigilia precedente: l’aeroporto era stato del tutto ripulito dalla neve (“Un miracolo!!” dicevano tutti, meravigliati) e quel padre aveva potuto tornare a casa dalla sua famiglia, in tempo per aiutare la propria compagna a mettere i regali per i suoi figli sotto l’albero. Ricordava ancora il loro sorriso dolce, quando lei aveva aperto la porta. “Ma.. come hai fatto? Era tutto bloccato!!… Bentornato!” e lui “Non sanno spiegarlo… vediamo domani al telegiornale. Sarà stato Babbo Natale!!”

Guardando nella sua sfera di cristallo, lei non si era offesa più di tanto: “E’ dagli anni trenta che quel simpatico ciccione vestito di rosso e con la pancia piena di birra, mi frega la vigilia… ahah! Bene ragazzi, domattina i vostri bimbi vi abbracceranno e passerete una bella giornata insieme” e se la rise, perchè non si arrabbiava mai.

Il secondo era servito a riappacificare qualche migliaio di coppiette che avevano litigato nei mesi precedenti ma che desideravano profondamente vincere il rancore e le ripicche, per finire l’anno in serenità.

Il terzo, il quarto ed il quinto erano serviti per far trascorrere un buon Veglione a milioni di persone. Ce n’erano voluti tre, per i troppi fusi orari: “Uno ogni otto ore, potrebbe bastare” aveva pensato.

Purtroppo il mondo aveva in sé troppa infelicità e lei aveva calcolato male, per cui non tutti si erano divertiti.

“L’anno prossimo ne uso quattro: uno ogni sei fusi orari. Speriamo che vada meglio”.

Con il sesto ed il settimo, aveva tentato di rendere più buona un po’ di gente l’anno successivo, ma anche questa volta era andata male.

“Ci proverò sempre, comunque”.

Era una gran testarda.

Per fortuna.

L’ottavo era servito per dare del buon sano (tanto) sesso a Capodanno: un’elargizione di felicità in formato globale. Per fortuna ne bastava uno solo, il resto era semplicemente amore o desiderio, o anche solo una gran voglia di divertirsi.

“Funzionassero tutti così bene, sempre…” sorrise. Era la più giovane della sua categoria, e le altre – più vecchie e ciniche – le rimproveravano sempre di usarne uno per quel motivo, considerato inutile, praticamente uno spreco.

Lei rispondeva, sorridendo: “Sì, sì. Pensate pure che sia futile. Ma se ognuna di noi riservasse un incantesimo al buon sesso, sarebbero tutti più tranquilli e sereni… e ne dovremmo usare molti meno per risolvere gli altri problemi”…

Il nono, come da tradizione, dava pace, serenità e armonia. Inoltre per qualche giorno permetteva di poter sopportare senza troppi problemi parenti fastidiosi, cene o pranzi noiosi e, soprattutto, di offrire una buona digestione, in caso di cuoche non troppo esperte. Era un incantesimo obbligatorio.

“Ok, è quasi l’ora. Ne ho ancora solo uno”.

La regola era che uno dei dieci, generalmente l’ultimo, venisse riservato a se stessi. Era il premio, il bonus. L’unica forma di pagamento per le Befane di tutto il mondo. Bisognava pensarci molto bene, formulare bene le parole.

Lei, ingenuamente, il primo anno l’aveva rovinato chiedendo per sé soldi e nient’altro. Ma aveva perso i veri amici, gli unici che non si possono comprare e alla fine anche i soldi erano finiti.

Il secondo anno aveva chiesto un bell’uomo. Ma la richiesta era stata troppo generica e sulla sua strada era capitato un bellissimo e muscolosissimo uomo abbronzato che, però, non aveva mai letto libri, né era mai andato a teatro, parlava solo di palestra ed esercizi, e non amava il sesso, né la buona cucina e non riusciva a distinguere un brano di Mozart da una canzoncina dello Zecchino d’oro. Aveva avuto conferma della sua totale inutilità quando aveva scoperto che non sapeva fare nemmeno le pulizie di casa e non amava viaggiare. Insomma, un intero anno chiusa in casa ad annoiarsi.

“Quest’anno non posso sbagliare. E’ già il terzo: non oserei più guardare in viso le mie colleghe”

Scrutò ancora il cielo, plumbeo, la scopa di saggina, il sacco dei regali per i buoni ed i cattivi. Si scervellò per qualche minuto ancora e, alla fine, con il sole nel cuore, decise per qualcosa che le avrebbe dato felicità, viaggi continui, amicizie, buone mangiate in compagnia, qualche birretta scherzando e ridendo, la possibilità di raggiungere luoghi per ascoltare musica. Magari anche sesso (non si sa mai).

Sorrise e solennemente pronunciò il decimo desiderio, sapendo che – questa volta – sarebbe stata la scelta giusta.

“Una Guzzi”.

Credo sia Amore

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di Daniele Bogani(StepV11)
Quella mattina pioveva forte, si sentiva il ticchettio della pioggia che aumentava e diminuiva seguendo le folate di vento.
Avevo i piedi al calduccio e solo spostarli dalla loro posizione mi creava un fastidio insopportabile. Insomma era possibile prendere il mio V11 ed andare al raduno? Una cazzata bella e buona. E allora non ci si può tirare indietro. Fin da ragazzo chi non si presentava agli appuntamenti in moto per il cattivo tempo veniva punito con una settimana di prese per il culo. Stavolta sono solo, ma anche solo davanti a me stesso non posso rinunciare
Tralascio lo sguardo di mia moglie quando vede che mi vesto per uscire in moto. Per la cronaca meteo il SUUNTO mi indica 6° C.

Al solito il V11 parte alla prima, lo faccio scaldare al minimo appena una decina di secondi e poi do i soliti due colpi di gas: la risposta non si fa attendere, si sposta sempre a destra in segno di gioia, non c’è niente da fare sarà un gran viaggio.

Arrivo al casello che viene giù il mondo, in pratica piove a sassate. E qui faccio il primo errore: sotto la pensilina mi tolgo i guanti per intascare il tagliando e quando me li rimetto li calzo accuratamente sopra le maniche della Spidi H2OUT. Vedremo in seguito come pagherò sì tale errore.

Parto gasato come pochi, in una sorta di mista consapevolezza di essere un bischero da una parte ed un grande dall’altra. Entro tranquillo nello svincolo e poi mi appare il nastro d’asfalto nuovo di pacca.
Questo asfalto drenante è eccezionale, niente aquaplaning, la moto scorre come sull’asciutto e solleva pochissimi spruzzi. Ed allora gas. 110, 130, 160…… e mi sembra di essere in Westfalia mentre provo la moto d’estate. Godo molto anche perché l’abbigliamento, casco compreso funge alla grande, niente incertezze quindi.

Che dire, il V11 mi da grandi soddisfazioni, mi metto sulla corsia di sorpasso e supero una ad una tutte le macchine che trovo, ma poi il tratto di asfalto nuovo finisce e contemporaneamente iniziano i problemi.
Le macchine davanti alzano notevoli nubi di acqua, e mi sembra di sentire una persistente e pungente sensazione di bagnato al polso sinistro. Maledizione l’acqua mi sta colando dalla giacca dentro i guanti.
Sulla Bonnie il manubrio era più alto e il guanti li portavo sopra le maniche così l’acqua scorreva via, sul V11 è esattamente il contrario. Sono fatto, in pochi km la felpa dei guanti è fradicia e inizio a sentire un po’ di freddo.

Poi vedo un autobus e mi accodo a debita distanza, va sui 100 e mi protegge dalla pioggia incessante che tira a vento frontalmente.
Sono pellegrini macedoni, ed a gruppi di tre-quattro si avvicendano al finestrino posteriore per vedere quel coglione che va in moto sotto quel diluvio. Dopo un po’, esaurito il pubblico, sfilo il bus e riparto verso il primo grill. I guanti sono fradici e le mani ghiacciate. Infatti prendo un caffè e li strizzo per bene.
Sia chiaro indietro non si torna. Sono a metà strada e non smette un attimo di piovere. E’ bellissimo viaggiare sotto l’acqua battente una volta che ti sei abituato alla situazione ed hai preso confidenza con l’insieme moto/asfalto, e sul bagnato il bestio è una roccia, finalmente i suoi 230 kg mi tornano utili sotto forma di una stabilità impressionante. Venite, venite giapponesi, che vi curo io.

Esco dall’autostrada e leggo il termometro:12° C, le mani non le perdo più, evvai.
Sulla Provinciale trovo un gruppo di motociclisti che si riparano sotto un cavalcavia e mentre li saluto non posso fare a mano di esaltarmi, io ed il mio V11 non ci fermiamo per due gocce di pioggia, e se non era per la cazzata dei guanti non ci si fermava nemmeno al grill. Infatti quando siamo ripartiti mi è parso un po’ stizzito, e non si è avviato alla prima come al solito. Nessuna moto mi ha mai fatto pensare questo. Credo sia amore.

Due ore di viaggio e sono arrivato. Parcheggio la moto in fila alle altre Guzzi, e rifletto: avrò anche fatto una bischerata, ma averla fatta, al solito, è stato bellissimo.

Moto, burro e marmellata (a volte è bello fermarsi)

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di Ponant

Ho in bocca un sapore che non sentivo più da anni, quello di un panino pane burro e marmellata, fatto con un burro giallo che non credevo neanche esistesse più, un burro profumato di fiori, di stalla con le taniche del latte in alluminio.

E la commessa del Bar guarda divertita la mia faccia mentre mangio, lentissimo,
questo panino che sembra arrivi da un altro pianeta e invece sono a Massa Lombarda, vicino a IMOLA, e con quel sapore in bocca la lunga strada intervallata da paesi garibaldini della bonifica mi sembra ancora più bella, ho diminuito i ‘giri’ di Osvaldo e da Anita a Comacchio sui fianchi del delta, il Po comincia a muovere la sua bacchetta magica, e con il casco aperto
comincio a sentire quell’odore…..

il sole, dopo tre lunghissimi giorni di pioggia comincia a riscaldare il delta e LUI come la schiena di un contadino curvo in mezzo al campo comincia a ‘rilasciare’ il suo sudore…

guardo la cartina sulla borsa del serbatoio e provo a immaginare traiettorie improbabili e ottimali in una regione che alterna strade dritte ed infinite a canali con ponti obbligati…

Comacchio, Pomposa, Bosco Mesola….e girata una strada dietro ad una abbazia la biscia cementata della Romea scompare… e ricompare il delta.

A quel punto non so se la velocita di Osvaldo e più vicina a quella di una bici o di una moto, ma non mi importa, ciò che mi importa e che ho ritrovato il ‘MIO’ passo ideale, quello che mi piace avere quando seguendo la strada non devo preoccuparmi di essere troppo veloce o troppo lento.

Sento che la velocita è quella giusta. Giusta per ricevere le immagini che corrono sullo schermo… come in un film girato a manovella scorrono davanti agli occhi Goro ,Gigliola, Ariano e passato sopra a un ponte a pagamento (che rumore le tavole di legno sotto le ruote…) e poi dallo schermo normale, esplode il technicolor della sacca degli Scardovari… e a quel punto il film si ferma.

Spengo il motore.

Metto il cavalletto, scendo, mi siedo sul bordo della strada, tolgo il casco e appoggio la schiena sulla ruota di OSVALDO.

20 minuti, una ora? che differenza fa? Sono qua seduto sul ciglio di una strada e guardo svassi e aironi cinerini, nutrie disturbate dal volo dei gabbiani che schiamazzano per rubarsi fra di loro un pezzo di un pesce di laguna.

Sono qua, fermo. Non c’è il prima, né il dopo, c’è solo il calore del sole, l’odore dell’acqua salmastra è il mio ‘contatto’ con il Delta, con un microsistema unico e bello che già avevo sfiorato altre volte, ma che mai prima d’ora avevo ‘sentito’ così forte.

A questo punto, dovrei ricominciare ridescrivendo la strada del ritorno. E invece la testa, il film restano li dagli scardovari… e la strada del ritorno, pur molto bella, sembra la sagra senza fine dei titoli di coda… e allora permettemi di aggiungere il mio modesto contributo alla fine di questa lettura.

I titoli di coda:

itinerario
Imola-Scardovari-Imola

KM percorsi
285

Driver
Maurizio ‘ponant’ Vallebona classe 1964

Moto utilizzata
Guzzi T5 ‘il burbero’ OSVALDO classe 1985

Carburanti Utilizzati
Benzina super 98 ottani
Pane burro e marmellata
Piadina e squaquerone (a mezzogiorno)

Durata dell’itinerario
8, forse 9, magari anche dieci (ore)

Registi lungometraggio
Sig Tonti Lino
Ing Carcano G.C.

Colonna sonora
a cura del centro di produzione audio-video
Moto guzzi S.p.A. di Mandello del Lario (LC)

Durante le riprese di questo film non sono stati utilizzati animali in cattività, o addestrati, o soggetti a pressione psicologica alcuna salvo il lancio di un pezzo di pane (senza burro)

Si ringraziano nell’ordine:

– il consorzio della bonifica
– il benzinaio della shell di ANITA
– la barista di Massalombarda
– l’agente polstrada sulla Romea che non mi ha fatto la multa per il sorpasso
– il colonnello Giuliacci delle previsioni del tempo
– il Vds Tiziano Nicastro
– La grullaia Assunta Loreti

I fatti riprodotti in questo film sono tutti realmente esistiti si tratta di luoghi, persone, sapori, odori che invito caldamente tutti a visitare e conoscere.

Il Lato Ludico della Moto

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di Andrea (wvilla)
Una volta un amico mi disse che si inizia ad invecchiare quando si incomincia a ricordare con nostalgia il passato. Ora dopo questa mia esperienza che mi sto accingendo a raccontare credo invece che il passato, se ricordato con gioia e piacere, ci aiuti a vivere meglio il presente e ci dia la spinta per affrontare il futuro.
Inizio queste mie righe con il ringraziare prima di tutto la Moto Guzzi , senza la quale non ci sarebbe stata nemmeno la partenza di questa lunga storia e in secondo luogo Anima Guzzista che mi ha dato quel carburante per continuare il viaggio, o meglio riprenderlo dopo un lungo periodo di appisolamento.
Ieri ho partecipato ad un incontro tra guzzisti dopo circa 7 anni di quasi inattività motociclistica ed ho rivissuto momenti dimenticati, immagini che si erano affievolite nella memoria e che sono tornate a galla grazie ad alcuni di voi.
Tutto comincia agli inizi degli anni 80, io ero un ragazzino un po’ rompi, ma appassionato di moto come pochi, eravamo in due in quella strada , io ed un certo Davide, ed entrambi non vedevamo che moto, solo moto. Passavamo molto tempo insieme, come si dice dalle nostre parti, abbiamo fatto i bambini insieme ed insieme abbiamo coltivato la nostra passione per “e mutor”.
A me in particolare piacevano le Moto Guzzi, non so dire il perchè, ma il rombo che usciva da quegli scarichi, il colore rosso, le persone che giravano attorno a quella officina mi facevano fantasticare, immaginare motociclette in gara oppure lunghi viaggi alla scoperta di luoghi lontani, solo io e la mia Guzzi, io e la mia anima.
Allora la Moto Guzzi aveva ancora un largo seguito senza contare che tutte le forze dell’ordine erano dotate di Guzzi, in officina trovavi sempre qualche poliziotto municipale, noi li chiamavamo “i Falconi” (anche se ormai avevano abbandonato quella moto) con il quale scambiare quattro chiacchiere oppure un carabiniere con il quale soddisfare le nostre curiosità a volte impertinenti. C’era un gran giro attorno a quella officina un via vai di moto, rombi che si allontanavano e rombi che si avvicinavano in un susseguirsi di atterraggi e decolli, come solo delle vere aquile possono e sanno fare.
Rompevo il concessionario quotidianamente, tutti i giorni ero da lui, tutti i giorni guardavo e riguardavo le moto, le conoscevo a memoria, il California 2, il Le Mans 1000, il V75, il Lario, l’Imola, le custom, di loro ormai conoscevo ogni particolare ogni pregio ed anche ogni difetto, parlando con il meccanico mi spiegava cosa non andava, cosa si doveva fare per risolvere i problemi, ed anche se io sono stato sempre imbranato nella meccanica lo ascoltavo e fantasticavo come solo a 14 anni si fa.
Poi grazie ad un amico di famiglia sia io che Davide iniziammo a fare qualche giro in pista sugli 80 cc, cavolo per noi era il massimo ci sentivamo dei campioni arrivati, a scuola facevamo gli sboroni con le ragazze, perchè noi correvamo in pista con le moto, le invitavamo a venire a vederci e come capita di solito a qualunque maschio osservato da una femmina , andavamo ancora più forte, rischiavamo ancora di più e volavamo su quelle gomme strette strette iniziando ad imparare sin da giovani le dure leggi dello sport, e della vita, la vittoria e la sconfitta.
Piano piano quelle gomme si sono allargata e qualche soddisfazione me la sono tolta, sicuramente molte di meno di quante non se ne sia tolte Davide, ma abbastanza per ricordare quegli anni (fino ai primi 90) come favolosi.
Voglio però parlare della Moto Guzzi, della moto come passione, del lato ludico della motocicletta e non di quello pistaiolo (che è ludico pure, ma sotto altre vesti).
Nel 86 mi presi la patente e mi comprai la prima moto, finalmente Vittorio (il conce) vedeva coronati tutti quegli anni di disponibilità, quelle tonnellate di depliants regalati e quelle interminabili, per lui, ore che passavo nell’officina.
Proprio per staccare nettamente con la pista e per convincere mio padre, mi presi una custom, una Floriduccia 350, ricordo ancora la lotta con mio padre che non voleva assolutamente che oltre alla pista andassi in moto anche per strada, arrivò a promettermi una Lancia Beta Zagato (ce n’era una in vendita sotto all’ufficio dove lavorava) rossa e cabrio; io però ero inflessibile ed in fondo i soldi li avevo guadagnati io (il bello della riviera era che in una stagione da aiuto bagnino ti compravi una moto) ed io dovevo decidere come spenderli.
Quindi Florida 350 comprata come tutte le mie moto in pieno inverno. L’anno dopo primi viaggi, prima sperimentai un raduno a La Spezia per farmi le ossa e capire un po’ meglio le dinamiche dei viaggetti su due ruote, poi mi misi in testa di valicare le Alpi, il mio primo vero viaggio iniziò lungo la statale del Brennero, quindi arrivai ad Innsbruck, poi Garmish e dopo lungo la Romantische Strasse arrivai al lago di Costanza ritornando per la Svizzera via Lucerna, fu in quel viaggio che iniziai ad imparare cosa vuole dire essere motociclista, a salutare chi si incrocia, a valutare la moto non solo per quanto va, ma anche per dove va.
Partivo sempre solo, tanto sapevo che lungo la strada avrei sempre trovato qualche altro motociclista che per un pezzo di viaggio mi avrebbe fatto compagnia, e così i viaggi si moltiplicavano; anche in autunno sentivo il bisogno di partire, stavo a casa da scuola una settimana e me ne andavo in Yugoslavia (allora c’era ancora), oppure in Francia o in Italia stessa a zonzo per il bel paese, idem in primavera e via così.
Gli anni passavano ed appena fu possibile cambiare moto, cambiai solo cilindrata, prendendomi un Florida 650, ma non cambiarono le mie abitudini si partiva sempre io e lei, anche quando la morosa c’era (e non era purtroppo una costante) me ne partivo solo, magari anche per 4 o 5 giorni, ma solo.
Con una cilindrata più corposa iniziai ad osare un po’ di più, ed allora Francia, Spagna, Austria, Germania diventarono mete molto più accessibili, è impossibile raccontare tutti gli episodi vissuti, ma alcuni sono talmente vivi nella mia mente da sembrare accaduti ieri, come quello di un trasportatore tedesco che fermandosi e vedendomi senza benzina, chiamò al cb un suo collega che venne con rimorchio cisterna e mi riempì il serbatoio o come i due gendarme francesi che mi inseguirono sulla statale tra Besancon e Dijon, andavo talmente forte che non me ne accorsi e mi presero solo quando , a detta loro dopo venti minuti, mi fermai a fare rifornimento, erano tanto stanchi che dopo avermi chiesto i documenti mi dissero che il mio nome non era Andrea, ma che avrei dovuto chiamarmi gasgas e ridendo mi lasciarono andare; sono decine gli episodi occorsi, alcuni dei quali non raccontabili in un sito pubblico frequentato anche da bambini, e tutti hanno lo stesso comune denominatore il piacere di vivere ed il piacere di andare in moto.
I viaggi mi appassionavano sempre di più, ero quasi drogato dai viaggi e dalle moto, quindi decisi che era momento di cambiare anche il tipo di moto e presi la SPIII (moto che ancora possiedo), con quella bestiolina coronai i miei sogni, Olanda, Danimarca, Svezia, Portogallo, Grecia, per ogni viaggio serbo dei ricordi, in ogni occasione ho trovato degli amici; solo Capo Nord non riuscii mai ad agguantare, forse più per pigrizia che per reale impossibilità, ma tant’è ci si deve accontentare ed il gusto di viaggiare era sempre come la prima volta, ogni partenza aveva il brivido della novità.
Che bello fermarsi in una osteria e fare amicizia con delle persone che come te condividono una passione, la moto; che bello parlare per ore con degli sconosciuti come se facessero parte della tua vita da decine di anni, aiutare ed essere aiutati, soccorrere ed essere soccorsi per il solo motivo di essere motociclisti, di vivere sulla e per la strada emozioni che non si possono raccontare ne si possono capire senza averle mai vissute; in più la Moto Guzzi ti da quello che altre marche non ti danno, ti da uno spirito di appartenenza incredibile, i guzzisti amano la loro moto ed amano il loro motore, amando ognuno la stessa cosa è come se un po’ ci amassimo tra di noi, ci stimiamo senza conoscerci in virtù di scelte condivise.
Gli anni avanzavano e come si usa dire si doveva mettere la testa a posto, pensare alla famiglia, sposarsi e vivere più tranquillamente, ed è questo che anche io feci, la moto (sempre la SPIII) fu un po’ dimenticata , mai abbandonata, ma lasciata in disparte sì, sempre curata, come quando si serba una cosa per un evento, un qualcosa che non si sa quando accadrà ma di cui si è certi che, prima o poi, ci sarà.
Ieri grazie ad un incontro organizzato dalle anime guzziste siciliane, a cui ho partecipato, il primo dopo tanti anni, ho rivissuto emozioni sopite, piaceri che avevo dimenticato, gioie che solo l’essere motociclisti (specie se guzzisti) può fare provare, quell’evento tanto atteso sulla cui esistenza ero certo è finalmente arrivato.
Ho ritrovato la moto, ho ritrovato i motociclisti, ho ritrovato il piacere di condividere una passione, ognuno di loro ha dei ricordi più o meno indietro nel tempo, ognuno di loro ha delle esperienze ed ognuno di loro ha voglia di condividerle, ci siamo ritrovati da ogni angolo della Sicilia (alcuni hanno fatto più di 500 chilometri) per partecipare a questo incontro e con ognuno di loro, ma veramente con ognuno, era come se ci si conoscesse da una vita, come se ci si ritrovasse dopo un tempo trascorso in lontananza.
Gli aneddoti si sono sprecati e la cosa strana, ma poi non così tanto, è che ad ognuno di noi sono spesso capitate le stesse cose, spesso abbiamo vissuto le medesime esperienze a testimoniare che la vita di un motociclista passa per ben determinati passaggi, è connotata da strade assai simili seppure provenienti da angoli opposti
Ad una prima lettura il mio entusiasmo potrà esservi sembrato esagerato, ma è la verità, ho ripercorso con la mente tanti anni passati, sono riaffiorati decine di ricordi, ed il fatto di avere utilizzato ancora quella moto, la SPIII , mi ha veramente riportato indietro negli anni, certo il raffronto è impietoso, i pochi capelli rimasti ed i 20 chili in più sono tutti lì a testimoniare che il tempo è passato, ma in alcuni momenti della giornata mi sono sentito tornare un ragazzino, un ragazzino pronto a scrivere dei suoi primi 40 anni e dei suoi oltre 250.000 chilometri vissuti sulle Moto Guzzi.

Grazie a tutti.

Tre Amici due ruote

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di Giuseppe “Patato” Gullo
169 km. Questo recita il parziale della mia “BiCi Brevola” alle 18.30 di domenica 29/10. Una giornata passata a scorrazzare per le colline e le prime montagne intorno a Torino…

La giornata inizia presto, alle 7.40 suona la sveglia. L’entusiasmo è alle stelle, finalmente ho tutto il necessario: Moto, assicurazione e foglio rosa… oggi il primo vero giro con la mia nuova “belva”, il cavallo d’acciaio che ho aspettato per anni…
Mi preparo con calma, mi vesto da vero biker consumato ( laugh.gif ¨ ) salgo in sella e, dopo aver fatto il pieno, raggiungo il secondo componente della “compagnia dell’anello”. Fabio è l’unico “vero” motociclista del gruppo, biker da quando era un ragazzino, ha avuto praticamente ogni tipo di moto. Arrivo a casa sua in leggero anticipo e lo trovo ancora in pigiama, e candidamente mi sorride e dice “stavo guardando in tv Pippi Calzelunge, due minuti e sono pronto…”.

Ci conosciamo da anni, dalle superiori, e comunque continua a stupirmi simpaticamente ogni giorno che passa… E’ il classico “bravo ragazzo”, se non lo hai mai visto guidare qualcosa a motore… allora si trasforma in una specie di chimera metà Tazio Nuvolari e metà Valentino Rossi… E’ l’essenza del vero boy scout, senza mai esserlo stato (credo). La sua parola è una roccia, ‘amicizia un valore fondamentale…

Esce dal garage in sella al suo rumoroso bolide (Husqvarna SM610), una motard estrema tappezzata di adesivi misti tra il metallaro e l’appassionato di motocross. Ci aspetta una “tappa di trasferimento” di una trentina di km, che ci porterà sotto la collina di Superga, dove ci incontreremo con il terzo componente della banda.

Per fortuna la domenica mattina è abbastanza “spenta” in città, e sulle strade non troviamo traffico. Come da accordi, alle 9.45 siamo alla Dentera (per i non Torinesi, un trenino che collega la città con la basilica di Superga), in attesa di Federico.

Federico…un minimo di presentazione. Ci siamo conosciuti in ufficio, circa 4/5 anni fa (forse di +), e c’è stata intesa fin da subito… lui è l’estensione esterna della mia parte creativa… E’ un vero giramondo, nel senso che, per divertimento o avvetura o piacere personale, ogni tanto sceglie una nazione a caso sulla faccia del pianeta e ci si TRASFERISCE fino a che non si stufa. Poi rientra in Italia, medita per qualche tempo, e poi via di nuovo… Vorrei avere anche solo un quinto del suo fegato (anche xkè quel quinto sarebbe comunque distrutto dalla birra).
Il giovanotto (abbiamo la stessa età, ma mi piace pensare che il mio essere vecchio dentro abbia anche un effetto all’anagrafe) ha una caratteristica distintiva… come sceglie il paese per il prossimo viaggio, sceglie di giorno in giorno su quale fuso orario fasarsi… e normalmente non è mai GMT+1, il nostro…

Alle 10.15 vediamo un puntino giallo all’orizzonte che viene nella nostra direzione (telefono ovviamente spento o non raggiungibile) e che ci saluta allegramente. La sua cavalcatura è un Gilera Runner 200… insomma, il gruppo PIU’ ETEROGENEO POSSIBILE!!! (tutte italiane però!!!)

Facciamo colazione e il barman ci stupisce con effetti speciali di notevole effetto, che ci sentiamo in dovere di documentare

La strada che porta alla basilica, fino a domenica, l’avevo sempre percorsa in auto, e siccome c’è sempre il nonnino in pellegrinaggio che ti guida una “127 rustica” a 30km/h davanti, il tragitto arriva a durare anche una ventina di minuti… ecco, imparo immediatamente che la moto ha un altro metro di misura del rapporto spazio/tempo. In 5 minuti siamo alla basilica. Che facciamo? Due foto e via? ok…

“Allora? Direzione Colle della Maddalena? Dai dai, che c’è la strada panoramica, se mi ricordo bene, che è una meraviglia…”
Imbocciamo la panoramica che collega la basilica di Superga al Colle della Maddalena, senza prestare attenzione ad un cartello di “divieto di accesso ai motocicli” di circa 50cm di diametro… ci accorgiamo dello sbaglio quando, ormai a metà strada, ci rendiamo conto che i frequentatori di quella strada sono principalmete ciclisti e corridori, che giustamente, ci guardano come un orso potrebbe guardarti mentre gli rubi il miele… e vabbè, ormai siamo in ballo… arriviamo fino alla fine…

Arriviamo a destinazione… di nuovo in un tempo ridottissimo. Quello che io avevo pensato come un bel giro di una mattinata, si stava rivelando un giro di pochi minuti… TERRORE!!! TUTTA STA STRADA PER NIENTE?!?!?!
NO, OGGI DOBBIAMO INDOLENZIRCI LE CHIAPPE, SENNO’ CHE SIAMO VENUTI A FARE?
Avanti, due foto e poi si torna verso le montagne…

Purtroppo, come già la mattina, ritornare verso la valle di Susa richiede il noiosissimo passaggio dalla tangenziale di Torino, ma non ci abbattiamo e, alla folle velocità di 110/120 km/h percorriamo i 30 km che ci portano ad Avigliana.
Ora si può iniziare il vero giro piacevole.

Fino a quì, la maggior parte della mia attenzione era stata catturata dal pedale del cambio e dalla frizione, misto al dover frenare con una mano ed un piede, IL TUTTO CERCANDO DI RISPETTARE IL CODICE DELLA STRADA (frecce, precedenze, semafori…). E’ davvero dura essere un neofita…

Ma le cose cominciamo a cambiare… il piede adesso trova da solo le marce in accordo con la mano sinistra, la destra dosa in gas con dovizia…

però, non è poi così difficile, magari posso guardare anche il posto oltre che la strada…

E quì inizia un nuovo mondo. Gli occhi si schiudono ad una dimensione mai vista o provata prima. Tutti i sensi rispondono all’appello festosi. Quella strada percorsa decine di volte diventa ad un tratto nuova, ricca di profumi e di colori, di sensazioni forti e sottili mescolate in un cocktail di strada, uomo e moto.
Ed è quì che veramente mi rendo conto, che realizzo che quello che era stato un sogno fino ad ora, adesso è una realtà…

I tornanti si susseguono mentre saliamo lungo il monte Pirchiriano, passando in mezzo al bosco dai quali alberi cadono centinaia, migliaia di foglie… il passare delle ruote sull’asfalto le solleva in vortici, e il forte odore di sottobosco si infila nel casco. Quando arriviamo in cima sono in silenzio…

Non mi basta… NE VOGLIO ANCORA… Proseguiamo fino al culmine della strada, sul colle Braida e poi giù fino a Giaveno. La (mia) mogliettina ci aspetta con la pappa pronta intorno alle 13.30. Arriviamo a casa, siamo tutti e tre elettrici (anche Fabio che, nella mia testa, avrebbe dovuto essere più refrattario, data l’esperienza di anni in sella). Mangiamo raccontando il giro a Simona, che ci guarda come la mamma che sente il resoconto della partita di pallone del figlio 15enne. Sono davvero contento, quella felicità incontrollata e scalpitante che non provavo dalle prime tagliate (marinare la scuola/bigiare/fare sega) a scuola per andare a giocare con gli amici.

Il pomeriggio ci porterà ancora a Forno di Coazze

ma io termino quì il mio racconto, una storia semplice ma vera, una realtà fatta di amicizia costruita in tanti anni, tra alti e bassi, tra risate e birre, che oggi si arricchisce di nuove emozioni, legate ad un mezzo che mi sta dando grande gioia. Emozioni condivise con qualcuno che le apprezza e che ha il potere di arricchirle, nei miei ricordi e nel mio cuore, di tanti dettagli speciali.

Grazie Fabio, grazie Federico.

Ciao a tutti.

Il Mio Primo Elefantreffen

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Il Mio Primo Elefantreffe

di Marco Sardina (Marsa)
Era da tre anni che ci volevo andare e non ci ero mai riuscito. Quest’anno sembrava quello buono e poi ci si sono messi gli impegni di lavoro e all’ultimo anche il tempo. Tutto incerto fino all’ultimo minuto. E mi sono detto che l’elefanten è così, e va metabolizzata questa filosofia. Volerci essere ed essere pronti ad affrontare le incertezze e gli eventi. E’ Martedì. Preparo la meticolosamente la moto, rabbocco d’olio, controllata alle candele, regolazione punterie, coprimanopole montati e pronti all’uso e per finire un abbondante strato di silicone spray su tutto.
Il giorno dopo sarò proprio a Monaco per lavoro e non so ancora se riesco a rientrare.
Giovedì sera invece riesco a saltare su un volo di rientro e arrivando a casa sento già l’agitazione della partenza. Io con il rischio di ghiaccio ho paura, non semplice paura, me la faccio proprio sotto.
Va beh, non pensiamoci e a nanna.
Alla mattina di venerdì sono sveglio prima della sveglia, una occhiata fuori… azz!!! Ha nevicato… uno straterello bianco copre tetti e prato… ma non la strada!! Un attimo di riflessione e poi prendo la decisione. Vado!!! Se va male tornerò indietro ma non posso rinunciare adesso. Mia moglie terrorizzata mi saluta e sicuramente ha pensato che sono pazzo. Faccio del mio meglio per tranquillizzarla ma dubito di esserci riuscito. E a 48 anni compiuti sto per partire per il mio primo Elefantentreffen.
Mi preparo, pronto in un lampo e via al punto di incontro davanti a Pogliani a Sesto. Lungo la strada all’agitazione della partenza subentra una sorta di eccitazione, sto andando davvero!!! Stento ancora a crederci.
L’appuntamento è con un veterano dell’Elefanten che scrive su QdE, “il franz” e con chi altri non lo so ancora. Il motto è “chi c’è ,c’è”.
Arrivo ben prima dell’ora fissata e mentre mi fumo la prima sigaretta mi accorgo che le “liquid chain” (quella pasta che stesa sul pneumatico bagnato dovrebbe solidificare funzionando come una vera catena) le ho lasciate a casa.
Sto ancora riflettendo sulla grande filosofia dell’essere un minchia che arrivano i due soci della prima parte del viaggio. Il franz e wolf, BMW R1100RT e Kawasaki Ninja 900 (!!)
A parte i commenti sulla Kawa del Wolf protetta da improbabili “cuscini” tenuti da cinghie nella speranza di proteggere la carena da eventuali scivolate, e con paramani artigianali “costruiti” ad hoc, partiamo sotto il nevischio che a intervalli ci accompagnerà per tutta la strada. Ma prima abbraccio un caro amico, veterano dell’Elefanten che quest’anno non potendo partecipare è passato a salutare!!
A Trento Nord ci congiungiamo con altri tre compagni d’avventura e proseguiamo verso il Brennero con la temperatura che progressivamente si abbassa (-4, -6, -8°C) e continua e nevicare fine. Fortunatamente la strada rimane sufficientemente pulita. Verso Insbruck inizia ad esserci un po’ più di neve e il freddo inizia a farsi sentire nonostante gli strati di materiale tecnico. Le uniche calde sono le mani grazie a manopole riscaldate più coprimanopole e i piedi grazie anche al paraspruzzi della Norge. Il viaggio a parte il freddo si svolge senza particolari problemi e verso le 5 del pomeriggio arriviamo al bed and breakfast conosciuto dal franz. Un piccolo problema per le stanze prenotate che erano state per errore assegnate ad altri ma alla fine troviamo tutti posto letto. Doccia bollente e riscaldati tutti nella stube sottostante dove troviamo che ci aveva inconsapevolmente ciulato le stanze. Il lambretta club Lombardia. Tre lambrette e una vespa PX all’Elefantentreffen!!! Dei miti, simpaticissimi. Insomma la serata con una bella tavolata è volata tra stinchi, gulasch e birre!!!
Alla mattina, il risveglio assaporando il giro fino alla fossa, viene interrotto dal primo sguardo fuori……..uno spesso strato di neve copre tutto incluse le moto!!!

Il Mio Primo Elefantreffen

Scendiamo dopo colazione e la situazione è critica. Girello a piedi per verificare le strade. Impossibile muoversi. Solo “Pier il polso” con il suo 1200GS prova a fissare dei ragni alla ruota posteriore e tenta l’avventura. Sapremo poi che è dovuto tornare indietro dopo poco tempo. E se è tornato indietro lui……

Il Mio Primo Elefantreffen 2

Gli altri si dividono e la decisione è di arrivare alla fossa anche a piedi (15Km). Io e il mio “socio” (Bebba) partiamo e iniziamo a camminare. Secondo atto del minchia è stato dimenticare a casa anche un cappello qualunque….Compro in fretta e furia un cappellino con visiera e ci incamminiamo. Riusciamo ad evitare qualche kilometro soprattutto grazie a un camionista tedesco con un carico di birra che ci dà un passaggio per un tratto, fumando e bevendo birra e guidando a velocità folle sulle strade coperte di neve e ghiaccio. Ancora vivi nonostante l’esperienza, dopo gli ultimi 3Km con una salita al 14%, fatta a piedi, riusciamo ad arrivare alla fossa e le gambe paralizzate riprendono vigore.

Il Mio Primo Elefantreffen

E’ davvero un colpo d’occhio unico. Tra moto e sidecar che tentano di affrontare l’uscita verso la strada spinti dagli uomini dell’organizzazione, la gente che si assiepa per l’iscrizione, le foto di rito sotto lo striscione, i fuochi accesi con il fumo che si alza in cielo, le bandiere nazionali dove sono raccolti i gruppi più numerosi. Le moto e i personaggi più strani.

Ma arrivano anche i lambrettisti. Dei miti viventi. Sono riusciti ad arrivare alla fossa dove gli enduroni hanno fallito!!

Il Mio Primo Elefantreffen

E non possiamo dimenticare il manipolo di eroici disperati che è arrivato dall’Italia con il Ciao Piaggio….

Il Mio Primo Elefantreffen

Le sensazioni sono uniche. L’atmosfera sembra surreale e fuori dal tempo. Giriamo dentro al raduno godendo lo spettacolo variegato che offre, inclusi i preparativi per pranzi non esattamente dietetici.

Il Mio Primo Elefantreffen

Il rientro in albergo è stato celebrato con un’altra mitica tavolata e da una piacevolissima serata pur nell’incertezza sulla possibilità di ripartire il giorno successivo, per la neve che continuava a cadere, se pur meno intensamente.

Ma alla mattina le strade erano decenti e dopo i primi chilometri prudenti per raggiungere l’autostrada ci siamo messi in marcia abbastanza spediti nonostante il vento fortissimo che ci ha accompagnati fino a Rosenheim. E proprio il vento molto forte complice anche una nostra leggerezza mi ha fatto finire la benzina mentre ero in coda al gruppo. Inutili i lampeggi per avvisare chi mi precedeva, la moto si ferma e la spingo in una area pic nic poco distante attendendo che qualcuno torni indietro. Ma nel frattempo si ferma una giovane coppia in macchina. Il ragazzo, in inglese, anticipa la mia spiegazione e tira fuori dal bagagliaio una tanica di benzina che versa nel serbatoio della Norge mentre mi dice che avendomi visto spingere ha fatto inversione di marcia ed è tornato indietro. Era molto orgoglioso di avermi aiutato e ho faticato non poco per fargli accettare almeno 5 euro (non voleva categoricamente di più). Mi ha solo chiesto “quando vedrai un motociclista tedesco in difficoltà in Italia ricordati di aiutarlo”
Incredibile.
Da lì in poi, a parte la fatica, è andato tutto liscio fino a casa, con gli addii che si sono disseminati sulla strada a seconda delle mete finali di ciascuno e i quasi continui saluti agli motociclisti che rientravano. Era quasi un’altra festa nella festa!

Per queste ore non ci sono stati schieramenti di marche, di tipi di moto (bellissimo passare il gruppo dei Ciao salutando con il massimo rispetto) eravamo tutti uguali e solidali, tutti motociclisti. E soprattutto eravamo lì, La gente per strada che ti chiede da dove vieni, dove si trova il raduno, ascolta le risposte….e ti sorride facendo i complimenti e forse sognando l’avventura. Immaginavo potesse essere così ma esserci stato per me è stata una soddisfazione incredibile e ha cambiato alcune cose dentro di me.
Questa impressione unita alla soddisfazione di avere affrontato la paura del ghiaccio e di cadere mi rimarrà profondamente scolpita nell’anima.
Un ringraziamento ai miei incredibili compagni di viaggio, il franz, bebba, pier il polso, wolf e anche a tutti gli altri dei quali (mi scuso) non ricordo i nomi.
L’anno prossimo ritornerò.

10 Minuti a Ceparana

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di Piero Mombello
Un SMS: “noi si va”. Sono i Pippi con le Giappe, mi avevano accennato all’intenzione di bigiare. Ma si’, ho pure qualche commissione da fare.. comunico che li raggiungo a meta’ mattinata, avviso che non vado al lavoro e mi butto a valle per negozi e uffici. Alle 10 ho finito, tuta e via.
Gli itinerari sono sempre quelli, Scoglina, Bracco, Centocroci. Sosta per il pranzo: “ma a Varano gireranno?” E che ne so.. certo che ci scappassero un paio di turni.. e comunque e’ una meta come un’altra. Niente, la pista e’ presa dall’Alfa, tutto chiuso. Vabbe’, si fa la Cisa, benza ad Aulla. “Passiamo da Ceparana?” per gli altri sta bene, ok, allora via da Gallina!
Penso a Giuliano, lo avverto? Ormai gia’ siamo li’, magari Roberto nemmeno c’e’.. pazienza, semmai Giuliano mi perdonera’!
In effetti Roberto non e’ in negozio, e nemmeno in officina. Stiamo per andarcene ma ci vede il figlio. “no, niente, volevo seccare tuo padre coi tempi andati, chiedergli di uno che correva, Mandolini..” “Ah, si, Mandolini! Papa’ e’ sopra, ti accompagno.” Come? Avra’ 20 anni e conosce Mandolini, incredibile.. intanto siamo arrivati alla torre, l’officina “segreta”. Roberto e’ li’ in tuta che lavora sulla Tamburini da gara.”papa’, c’e’ uno che vuol sapere di Mandolini..” “Vieni, vieni! Siete andati a fare un giro?Mandolini, si’, l’ho ancora visto che saranno un paio d’anni, e’ venuto a cena. Dai, guarda qui.. stiamo diventando matti con l’acquisizione dati, e domenica abbiamo una gara..” ha in mano una staffa autocostruita e un affare che immagino sia un trasponder, sta cercando di piazzarlo al meglio da qualche parte sotto al serbatoio. Sono disinvolto come un’antilope in mezzo ad un branco di leoni affamati: questo ha corso con Agostini, Saarinen, con chiunque.. ha vinto due titoli mondiali (Lucchinelli e Uncini), e’ qui nel suo santuario che prepara la moto del figlio per una gara, arrivo io a rompere i marroni, un minchia qualsiasi che lo ha incontrato si e no 3-4 volte per strada.. e lui mi riceve come se mi conoscesse da sempre, come se tra i Read e gli Hailwood ci fosse stata anche la mia faccia ebete. “dai, cosa fai li, vieni a vedere!” Farfuglio: “Eh, oggigiorno.. tutta elettronica..””eccerto, ma guarda: piu’ sensori e cavi che motore, tra un po’!” E’ inutile, quest’uomo mi fa morire, e mi fa sentire piccolo piccolo. Come quando qualche anno fa mi racconto’ dell’incidente di Monza e di come lui salvo’ la pelle per pura combinazione.. cosi’, come si racconta tra vecchi compagni di scuola. E io mi sento sempre piu’ piccolo e impacciato. “Mandolini, si’, che volevi sapere?” “Ecco.. Barcellona, nel ’70, arrivo’ a podio..” lui da’ un’occhiata all’aquila sulla mia tuta, gli ridono gli occhi “Si, aveva la Guzzi!” “ma cos’era, un mono?” “certo, il mono..” “ma il bialbero?” un punto per me (grazie, Vanni!), sembra compiaciuto “non ci giurerei, ma e’ molto molto probabile che lo fosse.””ma la moto, che moto era, dove l’aveva presa.. sai.. sembra che non ne sappia niente nessuno..””ah, ma la moto era sua, se l’era fatta lui!” Eggia’, che pirla che sono..ovvio no? Ma che vuol dire, aveva preso un telaio di qualche Guzzi e lo aveva modificato, era Guzzi solo il motore, le sospensioni, i freni.. ma il suo sorriso e’ disarmante: “la moto se l’era fatta” dice gia’ tutto, per lui e’ pacifico che io abbia capito. Non ho il coraggio di replicare. Intanto il trasponder (?) e’ finito sul banco, Roberto si pulisce le mani con uno straccio e ha un’aria complice: “Mandolini e’ un amico, mi piacerebbe rivederlo, ma mia moglie..” e mi fa intendere che la moglie (molto morigerata e “tosta”) non lo vede di buon occhio per via di qualche sua scappatella.. e parte a raccontare! Si, ma la Guzzi del ’70, la gara di domenica prossima, il lavoro sulla Tamburini.. No, me ne devo andare, non posso continuare a fargli perdere tempo! “Grazie, Roberto, grazie davvero! Dai, scappo, senno’ non combini piu’ niente!” Sorride ancora, mi stringe la mano. Una stretta forte e sincera, da gente semplice, come mi capita sempre piu’ di rado di ricevere. Me ne vado con un sorriso ebete stampato in faccia, uno dei Pippi mi dice: “ma chi e’ ‘sto Gallina? mi sembra di averlo gia’ sentito nominare..” “E’ un gigante. Alto almeno tre metri, credimi” gli rispondo.
Poi salgo in moto e pian piano ci avviamo verso casa.

Piero

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