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Il Mio Primo Giubbotto di Pelle

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Il Mio Primo Giubbotto di Pelle

di Alysee Veltre (Figlia di Valter)
Io sono una bambina di nove anni,e da quando ne ho tre,vado in moto con il mio papa’. Io non ho mai avuto paura perche’ il mio papa’ e’ un pilota molto prudente e sono certa che mai vorrebbe il mio male. A lui piace andare in moto e pure a me.
Quando ero piccola il massimo della strada che facevamo erano un paio di chilometri che ci dividevano dalla “casa del popolo” di Grassina dove insieme si mangiava un gelato e si tornava indietro, ora che sono piu’ grande da Firenze siamo anche arrivati a San Gimignano e Siena.
Il mio papa’ ogni volta che salgo in moto controlla se il casco e’ allacciato bene, se indosso i jeans imbottiti e se porto gli stivaletti, io all’inzio non volevo essere trattata come una bambola e piu’ volte ho fatto le bizze… a me non piace viaggiare con i guanti… ma papa’ ha ragione.
Oggi e’ un giorno speciale, perche’ papa’ mi comprera’ il primo giubbotto di pelle, nero bianco e rosso, quello che ho visto al mercato di san Lorenzo, tutto imbottito, pieno di cerniere e bottoni argentati. Non so quanto costa ma a me piace tanto.
Al mio papa’ piacciono le MOTO GUZZI e la prima volta che sono salita in sella mi ricordo di una moto grandissima tutta nera con un manubrio immenso e il rombo del motore che faceva scappare tutti i gatti del cortile. Poi ce n’e’ stata un’altra simile, ma il serbatoio
era tutto lucido, ora questa nuova, e’ nera e bianca, bellissima, moderna, con il cupolino, mi sembra che corra piu’ forte. Ma io non ho paura, quando raggiungo dalla Francia papa’ prendo l’aereo.

E’ mattino presto, il negoziante del mercato di san Lorenzo tira giu’ il giubbotto dallo stendino e io lo provo. E’ della mia misura. 85 euro dice. Il mio papa’ mi guarda e sorride…
Il mio papa’: ho 50 euro se per te vanno bene…
l mio cuore si stinge, perche’ io con questo giubbotto… ci dormo pure di notte…
Il negoziante guarda il mio papa’ e fa: questi piccoli costano di piu’…
Il mio papa’: e’ vero, ma ho solo 50 euro…
Il negoziante: ma che moto hai?
Il mio papa’: siamo Guzzisti.
Io: (SIAMO GUZZISTI!)
Il negoziante: allora va bene.vorra’ dire che quando la bambina crescera’ ci rifaremo con il prossimo.

Il mio papa’, dopo aver pagato: se a lei piacera’ ancora andare in moto…
Io, con il giubbotto indosso stringo forte la mano al mio papa’, non ci resta che fare via nazionale attraversare la stazione di santa maria novella, prendere i caschi che abbiamo lasciato nell’ufficio di papa’ raggiungere la moto all’angolo e partire. Ah dimenticavo, io mi chiamo Alysee e sono figlia di Valter e questa e’ la storia del mio primo giubbotto di pelle.

ciao

Piccole “bimbe” crescono

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immagine-racconto

di Lorenzo Cammunci

Cazzo se è freddo stamani, un freddo micidiale.
Massimo mi chiede di sbrigarmi, i funghi non possono attendere tutto il giorno…e mi prega di vestirmi pesante perchè non vuole sentir frignare, alle 5:00 nel bosco fa freddo.

Non vuole portarmici, non ama avere compagnia quando si dedica alle sue passioni per staccare un po’ la spina dalla routine. Come quando i pomeriggi di agosto , dove aver fatto “compagnia” alla famiglia si concede una gita col suo motore, di rado ci porta anche mia madre…solo in sella alla sua aquila….
Non appartiene a gruppi, stormi o branchi mio padre…è un falco solitario, un tipo burbero che non concede sorrisi a nessuno, ma da un cuore solido e fondamentalmente buono…….piccoli flash che mi riportano alla sua memoria….

La macchina arranca sulla collina, la macchina….una vecchia Niva 4*4 di estrazione russa, sembra debba collassare da un momento all’altro , ma arranca comunque orgogliosa e puntigliosa….trovare posto non è così difficile , nonostante la preoccupazione di Massimo di trovare altri “clienti”.
Solo un bastone gli fa compagnia , nella ricerca….mi chiede nonostante tutto di andare avanti, di fargli strada. Mi districo nel bosco in maniera goffa, non ci sono mai stato, non conosco la natura….lui da dietro ogni tanto borbottando mi dice di fermarmi….ne ha beccato un’altro….e così fanno già 3 porcini e 5 prataioli…..il mio cesto è vuoto, l’occhio di falco non perdona.

Massimo ad un certo punto inchioda….mi dice di fermarmi subito…..i suoi occhi sono rapiti da tutt’altra cosa che un accampamento di funghi….primo pensiero che ingenuamente mi suvviene. Ha visto qualcosa, ma non sa ancora bene cosa…..si butta nella macchia….con fiato ansimante…non l’ho mai visto così febbricitante…non è certo un tipo da rendere pubbliche le sue emozioni, non lo è mai stato, neanche con mia madre…almeno non davanti a noi. Torna fuori con la frase: “Lorenzo, vieni a darmi una mano….ho visto una stradina, magari con un po’ di fortuna e qualche colpo di paraurti riesco a portare qui la macchina!!”

Penso….”Ma che ha visto un cervo??”

No, non è un cervo…è un rottame, tutto bruciacchiato dal quale spunta una scritta inequivocabile da un cilindro….MOTO GUZZI…..è ridotto ad un stato pietoso, probabilmente rubata e abbandonata nel bosco….la targa dice Firenze….36….ecc ecc….anche discretamente giovane….per quel periodo.
Alle mie spalle, chiari rumori di frasche e alberi che cadono , mi fanno capire che la strada anche se non l’ha trovata, Massimo, è in procinto di
costruirla a suono di stridore di cinghia….e marcie ridotte ( nella Niva non c’erano , ma erano ridotte comunque) . Io sono praticamente inesistente….ha trovato un terzo figlio….io sono la manodopera necessaria per portare a compimento un sogno,….e farlo crescere….Mi corregge non è maschio, ma femmina…si tratta probabilmente di una Nevada…e a logica , dalla grandezza del cilindro di una Nevada 350. Per me è come sentir parlare arabo…d’accordo lui ha un California …ma per me è comunque arabo…io amo le moto da Cross…anche se per ora ho solo “portato” un Grizzli ..e un fifty TOP, massimo che ho fatto è stato cambiargli la marmitta con una Molossi.

Caricare il rottame a 2 ruote su quello a 4 è tutt’altro che semplice…ma niente potrebbe far desistere Massimo. Arriviamo a casa….mentre in auto è una tomba…..ogni tanto quarda dallo specchietto retrovisore come sperando in un movimento, un sussulto di vita…..io penso: “mio padre sta male, o quantomeno non è normale ora”.

In men che non si dica, in una settimana si presenta a casa con una persona, con la stessa luce negli occhi che possiede lui, ma di una 30ina di anni più vecchio….aprono il bandone del garage…osservano la Nevada, ancora bruciata, ancora morta…gli occhi del vecchio  uccicano….esordisce con “maledetti figli di troia”…..si gira a sinistra e vede il Cali…..”bellissimo!!!!” difatti lo è: Massimo lo lucida almeno una volta a settimana, con prodotti fatti arrivare dalla Germania….lo smonta e rimonta una volta al mese….sembra immacolato e ha circa 250.000 km….ancora segnato sul contakm vecchio stile….non quelli nuovi che a 100.000 ripartono da 0……. Il vecchio dice che gli piange il cuore ma non ha la possibilità di sistemarla…anche perchè possiede altri mezzi importanti….ma nel dirlo la chiama Bimba…….da lì il nome….Massimo si offre volontario e vanno all’ACI…, l’anagrafe delle moto per dichiarare il nascituro.

Si chiude in garage per giorni….chiamando a destra e a manca per i pezzi, i mercatini d’epoca e le rottamerie aprono i battenti alla sua foga, alla sua ricerca spasmodica di pezzi. Un giorno quando è a lavoro, scendo a curiosare….non sembra neanche lei….il motore è sul banco….ma il telaio e la carrozzeria…mio Dio….che moto bellissima….Massimo mi sorprende alla spalle…mi dice di andare al banco con lui….e mi spiega le leggi del motore a V, il bicilindrico, la carburazione….ma io non lo seguo…come faccio?? Non ne ho mai sentito parlare prima!!!….

Mia madre è incazzata di brutto, a scuola trascuro un po’ il lavoro, ma la sua preoccupazione maggiore è che possa diventare come mio padre , con questa passione per le moto…..lei non ci è mai voluta salire….fin’ora. All’arrivo di un nuovo fratello , anzi sorellina….ho riscoperto il piacere di avere un padre…..Massimo, che difficilmente scorderò anche se la sorellina in futuro non dovesse esserci più. Ho scoperto anche un altra gran cosa: anche Massimo sorride………

Mia madre ogni tanto mi chiede di portala a fare un giro……e ogni volta scende dalla moto coi lucciconi.

A distanza di 14 anni da quei giorni molte cose sono cambiate….la bimba che aveva 25.000 km…ha percorso un giro completo più altri 52.000 ….il conto totale fatelo voi. Mio padre, Massimo, che per me è stato un vero padre….soprattutto rendendomi partecipe di questa grande passione, ci ha lasciato 3 anni fa per una malattia che l’ha corroso…a tal punto che al primo anno di malattia ha venduto il Cali ….anzi rottamato credo….dopo una vita da invidiare: 325.000km.

Io torno in moto, nonostante le mie condizioni di salute non siano bellissime , e faccia cure devastanti…..ho fondato un motoclub per ricordarmi di lui….ho fondato un motoclub per diffondere questa mia passione verso altri…con i pro e i contro che trovo nella vita da motoclub purtroppo parlando. E’ la prima volta che racconto questa storia….non senza una punta sia di timidezza,amarezza,,ma anche di orgoglio….mi sento fortunato….oltretutto è una storia che avevo promesso ad amici come Rinaz, Valter, Stefano, Gennaro…e molti altri.

Come molti sanno “heaven”il mio california special ora è in officina per un brutto incidente fatto a dicembre….dal quale io ho smesso appena di riprendermi “piccolo viandante” è da una vita in fase di restauro la cara BIMBA…invece ha un problema più serio: dopo più di 170.000 km…la centralina è partita….se qualcuno ha quindi la possibilità di suggerirmi un posto ove averla usata…..sarebbe un amico…..per ora non posso comprarla nuova…non mi è concesso nel rispetto alla mi donna e alle spese che dobbiamo sostenere. Sono appiedato…che non si addice per un neo presidente di un motoclub….ma lo sono…..per ora tutto è fermo in attesa di essere riportato a nuova vita, anche col vostro sostegno…..per ora vi ringrazio di aver ascoltato la mia storia…..mi sono “addormentato” per un po’ , ma sto cercando di tornare presto in sella.

Approdo in Indonesia

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Approdo in Indonesia

di Uros Blazco

In questo terzo episodio, vi racconto un’altra tappa del giro del mondo in moto fatto da Uros Blasko, tratto dal suo terzo libro. Si tratta di un attimo di separazione tra Uros e la sua Moto Guzzi Quota, nel momento del loro trasferimento dalla Malesia all’isola di Sumatra. Si coglie in queste righe che seguono, il rapporto che un Motociclista, (Uros è un Motociclista con “M” maiuscola), ha con il suo destriero a motore, soprattutto nel caso in cui si trovi dall’altra parte del mondo solo con la sua moto.
Sostene Chiaranda

La conquista dell’isola esotica

Il mio programma d’itinerario è semplice: viaggiare da una isola all’altra. Da Sumatra a Java, poi a Bali e Lombok, e infine a Timor e in Papua Nouva Guinea, praticamente conquistare tutta l’Indonesia. Forse è un itinerario troppo audace, ci sono troppe cose che non conosco, ma vedremo che cosa mi riserverà il destino.
La barca si avvicina alla costa, all’orizzonte appare la linea verde delle palme. Subito tra il verde si vedono le palafitte, che sembrano dei ragni, davanti ci sono i moli e le barche dei pescatori. Tutto è costruito dello stesso materiale e colore; con assi di legno grigio. Più la costa è popolata e più si diradano le palme e rimangono solo le case. Ci stiamo avvicinando a Tebingtinggi, una località situata a nord-est dell’isola di Sumatra, sul mare di fronte alla Malesia, e dove ancora oggi ci sono “moderni pirati” che a bordo di veloci motoscafi attaccano le navi in transito per saccheggiarle e a volte uccidono tutto l’equipaggio. Qui non c’è altro che un porto piccolo e isolato, il molo doganale è composto da una piastra di cemento, legata tra dei pali di ferro. Il “visto” per l’Indonesia ce l’ho, ma non ho il permesso per l’importazione della moto. Mentre un poliziotto raccoglie i passaporti, sono molto preoccupato sul come si evolveranno le cose. Secondo la legge mi possono rimandare indietro in Malesia, ma, penso tra me: “Loro non sanno che possiedo una moto!”. La nave da carico con cui sta arrivando la mia mitica Guzzi Quota, si chiama Curniahu ed è ancora in mare e arriverà solo questo pomeriggio. Decido di fare il doppio gioco, prima mi dichiarerò un “normale” turista e dopo che avranno posto il timbro di entrata sul mio passaporto, allora dichiarerò che sono qui con la moto. Gli Indonesiani sono di pelle più scura dei Malesi e sono vestiti molto male, mostrano i loro denti rotti quando sorridono, non parlano inglese, e anche gli Ufficiali non hanno un aspetto molto curato. Siamo i primi passeggeri della giornata e dubito che oggi ce ne saranno degli altri. I viaggiatori del posto scesi con me dalla barca vengono subito lasciati andare, mentre io vengo portato immediatamente al posto di Polizia.

Aspettando la moto e i documenti

Il posto di Polizia non è la parola giusta, è una baracca aperta da tutti e quattro i lati, e così non hanno né problemi di mancanza d’aria, né di odore di chiuso! Gli Ufficiali parlano la loro lingua e preparano il tè, uno prende il mio passaporto e mi domanda qualcosa, ma non avendo capito niente di cosa mi avesse chiesto, non gli rispondo, e lui lo rimette sul tavolo. Non so di che cosa stiano chiacchierando. Una barca arriva al molo e qualcuno di loro gli va incontro per controllare i documenti, dopo ritorna e si siede. Mi offrono una tazza di tè e parlano tra di loro, come se io non ci fossi. L’attività nella baracca si svolge lentamente, “Perché nessuno si occupa di me?” penso, “In che razza di posto sono capitato? Cosa staranno aspettando questi?” Insomma, la preoccupazione riguardo al mio futuro cominciava ad aumentare!!! In attesa che qualcuno mi dica qualcosa di comprensibile, guardo l’acqua fangosa, e penso tra me “Siamo sul mare o sulle rive di un fiume?”. Non ho provato a sentire se l’acqua è salata o no, l’ultima volta che ho fatto un bagno in mare ero sull’isola Samui, in Tailandia, dopodiché ho guardato le onde del mare da lontano. L’oceano per me è solo un ostacolo tra due continenti, mentre alcuni ci vanno solo per il gusto di bagnarsi nelle sue acque. Penso tra me che andrò al mare quando ritornerò a casa, e porterò anche mia moglie Metka con me, o forse faremo un bagno già in Australia, dove lei mi raggiungerà.

Sono qui seduto da un’ora, non succede nulla, ufficialmente io non sono entrato in questo Paese, mentre materialmente ci sono già da un po’, che cosa faranno di me i Poliziotti ? Ad ogni modo, io sono a Sumatra, davanti agli occhi ho le immagini, come un bambino, di una giungla folta e piena di serpenti velenosi, dove i feroci Dajak scoccano le loro frecce con le punte avvelenate contro i loro nemici. Probabilmente oggi questo non succede più, almeno credo! Dell’Indonesia non so nulla e ogni chilometro di viaggio sarà una nuova scoperta. Mi vorrei dirigere verso il nord del Paese, anche se me l’hanno sconsigliato. A che distanza ci saranno le stazioni di benzina? Sarà transitabile quella strada segnata sulla carta e accetteranno le carte di credito? Ma soprattutto, che cosa diavolo stanno aspettando i Poliziotti? Si avvicina la sera e penso che è il 24 dicembre e domani è Natale, come lo potrò festeggiare in questo paese musulmano? Loro hanno già il loro Hari Raya (il loro anno nuovo), ma io, come posso spiegare che non ho nessuna voglia di passare le ferie alla Polizia, senza parlare la loro lingua? In Indonesia si parla il Bahasa, che è simile alla lingua Malese, ma ho imparato solo alcune parole, come: terima kasi – grazie, selamat pagi – buon giorno e tolong saya – ho bisogno d’aiuto. Ma come spiegargli: fate svelti, voglio andarmene da qui, quando potrò aver quel maledetto timbro sul passaporto ?!?! Cerco di fare due parole con un poliziotto, ma di tutto il suo discorso capisco solo la parola Curniahu. Ma, è il nome della nave che trasporta la mia Guzzi! Allora loro sanno che non sono a piedi e che sta per arrivare anche la moto! Ma come l’hanno saputo? Forse è per questo che mi stanno trattenendo, immaginano che sono qui con qualche mezzo di trasporto, e in attesa di capire che cos’è, non vogliono che vaghi liberamente per Tebingtinggi. Sia come sia, forse tutto andrà bene e mi riuscirà l’entrata dalla porta posteriore (un modo per dire di entrare in un Paese senza tutti i documenti in ordine). Vedo una nave che si avvicina, un poliziotto la controlla con un binocolo, ed ad un certo punto, grida: “Curniahu!”. Adesso tutti si danno un gran da fare, timbrano il mio foglio d’entrata e mi invitano di salire su uno scooter che mi porta per un chilometro lungo costa, dove c’è la dogana.

Rigorosa sorveglianza doganale

Entro in un grande hangar, il terreno fangoso finisce nel molo, dove c’è già la mia vecchia conoscenza, la nave da carico Curniahu. La vecchia nave di legno segnata dal tempo attracca al molo con calma. La cabina si trova dietro, e il carico davanti. E’ coperta da una quantità incredibile di sacchi rossi, e sembra un enorme gelato! Salgo sulla nave e cerco la mia moto, ma dappertutto ci sono solo sacchi! “Dov’è la mia moto?!” chiedo a un marinaio e lui punta il dito in mezzo al cumulo di sacchi. Intorno si radunano gli scaricatori con degli “stracci” sulla testa. Se li incontrassi a un posto isolato ed oscuro, mi farebbero paura. Gli “erculei” mi sorridono e mi raccontano qualcosa, che non capisco. Con il cuore in gola, provo a dirgli che la mia moto si trova in mezzo di mucchio di sacchi e loro mi fanno capire che non c’è problema, che sono qui giusto per questo, per scaricare i sacchi della nave. Mi chiamano nella baracca della Dogana, dove c’è una sola tavola. Sopra la tavola si trova un piatto di riso con del sugo. L’ufficiale mi invita a mangiare un po’ della sua cena e siccome è da ieri che non mangio, non me lo faccio ripetere. Mangiamo il riso con le mani, senza fermarci finché è finito, poi mi chiede i documenti. Li prende con le dita tutte unte e li mette nel cassetto, e cerca di spiegarmi qualcosa, ma non capisco assolutamente niente! Poi mi ricordo che il Capitano Amrizal parla inglese, abbiamo parlato ieri mentre caricavamo la moto. “Dove é il capitano?” chiedo invano, ma dopo poco nella baracca entra il Capitano Amrizal. “Dov’e la mia moto?” gli chiedo subito, lui mi risponde, che hanno prima caricato la moto e sopra 200 tonnellate di cipolla!!! “Ma non ti preoccupare”, mi dice, “La moto è al sicuro, è come un uccellino nel suo nido, come ti ho promesso.” Poi spiega tutto ad un ufficiale della Dogana, che poi timbra finalmente i miei documenti e me li restituisce. Così finalmente, la battaglia delle carte è finita, ora rimane solo da trovare la moto in mezzo a tutte quelle cipolle!!!!!!!

Alle undici della sera il mucchio delle cipolle è molto più basso e si comincia a vedere l’entrata della stiva. Anche sotto nella stiva è tutto pieno di sacchi. Il capitano non sa esattamente dove si trova la moto, perché al momento del carico non era presente. Supplico i facchini di scaricare i sacchi sul lato destro, ma la moto non si vede. Non si trova neanche nell’angolo sinistro, così comincio veramente a preoccuparmi. Sono le due di mattina, sono già partiti sei autocarri pieni di cipolle e sta per partire il settimo. Ma è mai possibile che la Moto Guzzi sia sparita ? “Non ti preoccupare”, mi dice il Capitano Amrizal e mi invita nel sua cabina per prendere un te, “Troveremo la tua moto di sicuro!” Alle quattro di mattina scorgo tra i sacchi qualcosa di nero. “Scaricate qui!”, grido agli uomini, e dopo qualche minuto appare la moto, al primo impatto mi sembra un po’ schiacciata, il viaggio sotto le cipolle é stato duro per la mia Quota. Il cavalletto laterale è rotto e così anche il parabrezza, il manubrio e gli specchi sono storti, le borse laterali sono piegate e la borsa porta-attrezzi è sparita! La mia gioia diventa rabbia, con il cavalletto in mano entro nella baracca, “Chi pagherà tutti questi danni?” grido ad un Ufficiale della Polizia. “E’ questo il modo di trattare il carico?” Lui mi calma facendomi gesti con due mani e chiama il Comandante per tradurre. “Sei stato presente tutto il tempo durante lo scarico della merce!” mi dice, “Abbiamo rubato noi la borsa con i tuoi attrezzi?” e poi, “Siamo stati noi a caricare la moto e sopra le cipolle? No! E allora non arrabbiarti con noi, rivolgiti ai Malesi!” Mi rivolgo al Capitano Amrizal, ma lui alza le spalle, e mi dice: “Ti ho detto che non ero presente al momento del carico. Calmati, insomma non è poi così grave come sembra. Per dire la verità avevo paura che si fosse rotto tutto quanto. Vai e mettila in moto, prima che sparisca qualcos’altro!” La mia Guzzi parte subito e il motore respira a pieni polmoni! L’appoggio contro il muro e saluto tutti quanti. Gli operai sono meno stanchi di me, e sono felici di aver finito il lavoro. “Aspetta” mi grida il capitano, “Dove vai a quest’ora? Puoi passare la notte nella mia casa e domani che sono libero da impegni di lavoro, andremo in un’officina per saldare il tuo cavalletto. Poi faremo un giro in moto!” Penso che sia una buona idea e dopo averlo ringraziato, gli chiedo: “Che cosa vuol dire Curniahu?”. E lui risponde: “Sai, il mio padrone si chiama Curnia. In una demolizione per navi, ha comprato l’intera flotta e ha chiamato le navi in ordine analfabetico. Questa, sotto il mio comando è l’ottava, e porta la lettera H.”

Un’Aquila in Sudamerica

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Un'Aquila in Sudamerica

Seguito de: “Il Cammello di Mandello” di Uros Blazko

Introduzione e traduzione di Sostene Chiaranda

In questa seconda puntata, Vi racconto alcuni episodi relativi al proseguo del viaggio di Uros e Metka con la famigerata Guzzi Quota nell’America del Sud, e precisamente in Peru’ ed in Colombia.
Anche in questo racconto metto insieme episodi ed aneddoti tratti dal libro scritto (in lingua Slovena) da Uros.

LA STRADA DELL’INFERNO
Sbarchiamo in America del Sud, siamo in Perù, e scambiamo quattro chiacchiere con un tassista e quando costui viene a sapere che è nostra intenzione andare al Lago di Titicaca, attraverso Puno ci dice: ”Ahi, ahi, ahi caramba! Lavoro e guido da dieci anni in questa zona, però lassù non ci sono mai stato e non credo ci andrò mai!”. A queste parole, io e Metka ci scambiamo uno sguardo, ma dopo qualche istante di silenzio, decidiamo di partire.
Dopo dieci chilometri l’asfalto non c’è più e poco dopo siamo sopra Arequipa; vediamo le cime delle montagne circostanti alla nostra stessa altezza, ma la strada si alza ancora.
Ad un posto di blocco un poliziotto, controllandoci i documenti, ci chiede: “Perché avete scelto questa strada?” “Perché, che c’è di male?” gli dico io, e lui mi risponde ridandoci i documenti: “Lo vedrete strada facendo!”
Ripartiamo carichi di perplessità e poco dopo ci ritroviamo a viaggiare in mezzo alle nuvole e i tubi di scarico e la coppa dell’olio motore sbattono di sovente sulle rocce. Sto guidando piano, in prima marcia; sulla nostra destra c’è un’enorme muro di roccia, mentre a sinistra, nascosto dalla nebbia, c’è un abisso. Di colpo sento un urto violento, e al tempo stesso un aumento della rumorosità del Guzzone, capisco al volo che si è staccato un tubo di scarico e perciò mi fermo nel tentativo di risistemarlo. In questo punto, avvolte dalla nebbia, ci sono cinque croci, sistemate in una maniera tale da dare l’idea di cinque persone in una macchina, che quasi sicuramente sono finite nel vuoto.
Penso tra me e me, “Questo posto mi fa paura” ma non dico niente a Metka, che al rumore di un camion in avvicinamento, gli corre incontro per avvertirlo che siamo fermi dietro la curva, in modo che non succeda qualcosa di simile a ciò che era accaduto a quelli delle cinque croci!

Risistemato lo scarico della moto, ci accingiamo a ripartire e in lontananza vediamo le montagne coperte di neve, mentre intorno a noi ci sono dei laghetti dove pascolano i lama, attorniati da cicogne ed altri uccelli. Arriviamo in uno dei vari villaggi di questa zona, tutti simili e composti da alcune “case” costruite con lamiere metalliche, alcune di queste sono “ristoranti” dove si può trovare del cibo caldo. Sul muro di una delle case c’è un cartello con scritto: “Vendita benzina”, esce un ragazzino e ci offre un bidone di plastica. Io gli rispondo: “Non ne ho bisogno!”, poi quasi istintivamente, controllo il serbatoio del Guzzone, e con mia grande meraviglia, vedo che è quasi vuoto! Capisco che su una strada così, viaggiando con marce basse, il consumo di carburante aumenta in maniera incredibile, ed è per questo che dappertutto ci sono cartelli che indicano la vendita di benzina. A quel punto, gli corro dietro, e dopo aver trattato il prezzo della tanica di benzina, concludo l’affare. Verso il carburante nel serbatoio del Guzzone, e via lungo questa strada d’inferno. Dopo cinque chilometri la moto incomincia a strappare e alla fine il motore si ferma. Incomincia una “via crucis” fatta di smontaggi e pulizie del filtro carburante e delle varie tubazioni, ma niente! Il ragazzo ci ha venduto benzina sporca, e questo aggiunto al fatto che siamo sopra i 4.000 metri di altitudine, fa si che la moto abbia perso parecchia potenza, e quel che è peggio è che la sporcizia che c’è nella benzina intasa il filtro carburante e il motore si ferma.
Dopo alcune ore passate a ripetere queste operazioni, giungiamo finalmente in un altro villaggio, dove troviamo un specie di “locanda” che reca la scritta “TODOS VUELVEN” (tutti ritorneranno), e dove c’è l’ennesimo cartello di vendita benzina. Buttiamo la benzina rimasta nel serbatoio, e ci riforniamo con del nuovo “liquido” che sembrava benzina, o almeno ne aveva l’odore. Ormai è tardo pomeriggio, la giornata è stata pesante e faticosa, è inutile andare in cerca di ulteriori avventure, ed il proprietario della locanda ci dice: “Tra poco sarà buio, l’aria si farà gelida e la temperatura scenderà sotto lo zero, potrete dormire nella locanda”. E così, dopo aver mangiato qualcosa di caldo, portiamo dentro anche il Guzzone al coperto e prepariamo i nostri “giacigli” per la notte. Il mattino seguente, dopo una rapida colazione, siamo pronti a partire. Il proprietario esce e ci dice: “Metti in moto e vai!” La moto “teneva” il minimo a malapena, ed il proprietario della locanda sembrava felice che la moto funzionasse.

Partiamo lasciandoci il villaggio alle spalle, il motore “gira” in maniera soddisfacente, ma dopo circa dieci chilometri, quando la temperatura del motore si è alzata, la moto si ammutolisce all’improvviso. Tra mille imprecazioni, ricomincio a soffiare nel filtro carburante e nelle tubazioni, ma invano, la moto rimane muta, e mentre maledico il proprietario della locanda, non so più cosa fare!
Ad un tratto sento un rumore, si avvicina un motorino. E’ un uomo che ha capito che eravamo nei guai, e sapeva anche il perché! “Ti hanno venduto una miscela di petrolio per lampade, in quel posto lo fanno sempre!”. L’uomo mi porge una tanica di benzina e dopo averlo pagato e ringraziato cento volte, ci salutiamo. Finalmente il motore “gira” con vigore nonostante l’altitudine, e il viaggio prosegue. Dopo alcuni chilometri trascorsi su un fondo impegnativo, ma con tranquillità, ecco l’ennesimo problema, e neanche lieve!
Mentre sto viaggiando ad una buona andatura, sento un “botto” e la moto si solleva per un istante, mi fermo e guardando verso il basso mi accorgo che sotto al motore c’è dell’olio. Ho centrato in pieno un sasso con la coppa dell’olio motore!
L’olio scende a terra, e così anche il mio morale, il danno sembra grave, ma non c’è nemmeno il tempo per disperarsi: io comincio a smontare la coppa dell’olio, mentre Metka ritorna a piedi al villaggio precedente a cercare dell’olio motore. Pulisco bene la coppa e poi, utilizzando dell’alluminio in pasta che mi ero fortunatamente portato appresso, riesco a ripararla. Io ho finito il mio lavoro, la coppa è rimontata, ma Metka non arriva! Dopo un’ora, arriva sbuffando, (a questa altitudine manca l’aria) e con il naso spellato dal sole. Questo inconveniente alla fine ci ha fatto perdere la giornata, e quando arriviamo al primo villaggio, Katy, a 4.340 metri di altitudine,è già buio. Grazie alla gentilezza del proprietario di una Locanda ci rifugiamo all’interno con la moto e dormiamo in mezzo ai tavoli.

Al mattino, nonostante il sole che brucia, fa freddo, e mentre “lotto” coi buchi sulla strada, penso: “Ci è accaduto di tutto, ormai che altro ci può succedere?”. La strada sale, siamo sulla sella dell’Alto Toroya a 4.700 metri di altitudine, questo sarà il punto più alto di tutto il viaggio. Dentro al casco, felice, penso: “Adesso che siamo arrivati fin quassù, siamo imbattibili, nulla ci può fermare!”. Il Guzzone avanza a fatica, noi respiriamo con difficoltà, all’improvviso la moto si ferma! Un brivido mi attraversa la schiena, non ci metto molto a capire che il problema è la pompa della benzina. Il piccolo componente si è stancato di “pompare” tutta la sporcizia che c’era nella benzina degli ultimi giorni!
Batto contro la pompa, nella flebile speranza che riparta, ma niente! Non si sente nessun rumore, all’infuori del vento che soffiava gelido. La pompa è sigillata, non si può aprire, e non ne ho una di scorta! Non rimane che provare a smontarla, la sera si avvicina, il sole ormai ha perso la sua forza, non possiamo passare qui la notte, la tenda non resisterebbe a questo vento e i nostri abiti non ci permettono di passare tutta la notte sotto zero. Se non riesco a sistemare la moto in un’ora, dovremo abbandonarla qui e cercare a piedi un rifugio per la notte!
Mi metto al lavoro, apro il corpo della pompa come una scatoletta, mi tremano le mani, non so bene se dal freddo o dalla paura di non farcela. Mentre controllo come è fatta internamente, la pompa mi cade ed escono rulli e rondelle… ”Quanti rulli c’erano? Le rondelle vanno sotto o sopra? Se riesco a far ripartire la pompa, come farò a sigillarla?”. Questi pensieri mi attanagliano la mente.
“ Ci vorrà molto?” mi chiede Metka, ignara delle mie paure, “Ho freddo!” “Ancora un attimo”, le dico facendomi coraggio! Aiutandomi con un lamierino, della pasta per guarnizioni e delle fascette metalliche, metto insieme rulli e rondelle e riesco a richiudere la pompa, adesso è arrivata l’ora della prova cruciale.
Prima di collegare i fili alla pompa, guardo verso le montagne il sole che si spegne, mentre il vento freddo mi gela il cuore e intanto penso: “ Funzionerà ???”. Da questo dipendeva se avremmo camminato o se avremmo potuto riprendere la strada in groppa al Guzzone.
Collego la pompa, giro la chiave, la vita mi scorre tra le dita, un getto di benzina mi bagna i pantaloni!! “Evviva” un urlo seguito dall’eco si espande tra queste montagne.
Riprendiamo il viaggio, dentro il casco urlo, canto, sono al settimo cielo! Ormai è sera e finalmente ritroviamo l’asfalto, la strada dell’inferno è finita!
Sono così felice che mi fermo, scendo dalla Quota, e lasciandomi cadere sulle ginocchia, bacio il terreno come fa il Papa in terra straniera! E’ stata molto dura, per fare 224 km ci sono voluti tre giorni interi!

COLOMBIA
Dopo l’attraversamento dell’Ecuador, ci apprestiamo ad attraversare il confine con la Colombia; un soldato al posto di controllo guarda la foto sul mio passaporto, “Questo nella foto sei davvero tu? Allora dimmi il numero del tuo passaporto!”. Per fortuna che con tutte le volte che l’ho trascritto sui vari documenti me lo ricordo a memoria. Il soldato dopo questo “controllo”, mi restituisce i documenti, e senza un minimo sorriso ci augura buon viaggio. Arriviamo a Pasto, nel sud del Paese; la strada in questo punto sale e scende dalle montagne e l’ambiente è molto diverso da quello degli ultimi giorni, intorno a noi non ci sono rocce o paesaggi aridi, ma una fitta giungla. L’acqua scende dappertutto, dei torrenti attraversano la strada e noto moltissimi autolavaggi, dove si fermano soprattutto gli autocarri, che quando escono da queste boscaglie non si sa neppure di che colore siano realmente. Questi autocarri sono di produzione Americana, di molti anni fa, e dai loro tubi di scarico sprigionano un fumo denso, e questo fumo ci permette di sapere in anticipo, viaggiando in mezzo alla vegetazione fitta, che troveremo a breve un altro autocarro da sorpassare.
Ad un certo punto, tra le foglie delle palme, vediamo del fumo, ma questa volta non è di un autocarro, bensì quello di una trattoria! Col tempo abbiamo capito che anche qui vale la regola che se nel parcheggio della trattoria ci sono alcuni camion, la cucina è ok.
Qui in Colombia il cibo è migliore di quello del Cile o dell’Ecuador, ed è molto piacevole fermarsi a mangiare in una di queste trattorie lungo la strada.
Nelle trattorie e nei ristoranti si preparano tanti tipi di carne; a volte le mangiamo senza neanche sapere da quale animale provenga. Gli Indiani nella giungla si nutrono con carne di scimmia, di tapiro, di vari uccelli e altri animali esotici. Da queste parti una carne molto prelibata è quella di tartaruga, ma noi non abbiamo avuto l’occasione di assaggiarla, e nella maggior parte dei casi troviamo da mangiare carne di maiale o di pollo. Al posto del pane qui usano delle pagnotte di farina di tapioca chiamati “arepa”. Abbiamo trovato molto buona una piatanza fatta con farina di granoturco, mescolata con pezzi di carne, uova e zucchero, cucinata al forno o in padella. Un’altra “specialità” sono le formiche lunghe un paio di centimetri che si friggono nell’olio e si mangiano come “chips” (patatine). Qui si mangiano varie insalate, ma quelle che più ci attirano sono quelle di frutta: in Colombia cresce più del 50% delle specie di frutta del mondo e nemmeno i Colombiani le conoscono tutte! Ogni giorno proviamo qualcosa di nuovo e di strano, i gusti di questi cibi sono incredibili. Esistono sei tipi di banane, che vengono fritte, stufate e perfino cucinate in una specie di brodo. In Europa vengono esportate le banane più grandi e dai colori pi ù belli, ma prive di sapore.
NELLE ZONE DELLA GUERRIGLIA
Siamo sempre nel sud della Colombia, a Popayan; la popolazione locale è composta in prevalenza da Indiani, li vedi per strada a piedi o a cavallo. Un pastore con le sue vacche ci viene incontro e ricambia il nostro saluto. Poco più avanti all’ombra di un albero enorme ci sono alcuni uomini che guardano i passanti, portano dei “macete” alla cintura, decorati con nastri di cuoio colorati; quasi tutti hanno stivali di gomma e cappelli a tesa larga. Sono troppo curiosi per lasciarci in pace, ci fermano e cominciano a farci varie domande. “Da dove venite?” ci chiede uno di loro, “Dalla Slovenia” gli rispondo io, sicuro che mi chiederanno dov’è mai quel Paese, ma lui mi dice subito: “Anche voi avete una guerra come la nostra!”. La cosa mi ha lasciato senza parole, non avrei mai immaginato che questa gente, coi problemi che ha, fosse così informata dei fatti di casa mia!
Proseguiamo il viaggio, noto che ad ogni entrata e uscita dei villaggi ci sono dei posti di guardia, e circondati da sacchi di sabbia, ci sono soldati con le mitragliatrici. Sono preoccupato, spero che nessuno ci crei problemi, ma poi noto che le mitragliatrici sono puntate verso la giungla, e i soldati sono seduti sull’erba, visibilmente annoiati. Ci fermiamo a riposare il fondo schiena e a bere qualcosa in un’osteria, e chiediamo alla proprietaria informazioni riguardo i soldati nelle postazioni. “Sono soldati del Governo” ci dice mentre ci porta un paio di birre, “Gli uomini della Guerriglia controllano tutto il territorio, tranne la strada. Il Governo la ritiene importante, e vuole che il traffico si svolga senza problemi da nord a sud, per questo ha mandato tanti soldati.”
Tra me pensavo: siamo a posto: sulla strada, della nostra sicurezza se ne occupa l’Esercito del Governo, mentre nella giungla se ne occupano gli uomini della Guerriglia! I Colombiani sono abituati a convivere con la guerra, ci abitueremo anche noi.
Dal posto di guardia arrivano due soldati, li invito a bere una birra con noi, loro accettano volentieri, si siedono con noi e uno di loro fa un cenno ai suoi compagni per avvisarli che è tutto a posto.
L’altro ci dice: “Siamo armati così bene, che i guerriglieri non si faranno vedere!”.
Il tempo passa, le bottiglie di birra si svuotano, e i due soldati ci raccontano cose molto interessanti.
“In Colombia combattono tra loro tre Forze Armate; l’Esercito del Governo, la Guerriglia (che è divisa a sua volta in tre gruppi) e le Forze Paramilitari. Tutti portano la stessa uniforme, infatti queste vengono rubate da un gruppo all’altro, a distanza non riesci a distinguere di quale gruppo si tratti, e quando ti fermano è troppo tardi!” “Ma come fate a distinguervi tra di voi?” gli chiedo io, “Ogni gruppo usa una parola d’ordine, che viene cambiata ogni settimana, e poi usiamo dei soprannomi per nascondere la nostra vera identità, Guerriglieri e Paramilitari fanno la stessa cosa”.
“Per voi io sono Vasquez e il mio amico Valdez, ma i nostri veri nomi non li saprai mai!”.
Da dietro i sacchi di sabbia delle postazioni, si sentono i fischi degli altri soldati che hanno sete, e allora Vasquez e Valdez ci ringraziano e salutandoci, portano da bere ai loro compagni.
Sorseggiando l’ultima birra, penso come dev’essere dura convivere con una guerra che dura da più di trentanni!
Dopo qualche altro giorno passato tra la giungla e villaggi Colombiani, arriviamo alla nave che ci porterà in Panama, e poi in moto in Nicaragua attraversando il Costa Rica.
Da qui, piccolo trasferimento aereo fino in El Salvador e poi via col Guzzone in Guatemala, Messico, Texas, Louisiana, Mississippi, e su fino a New York, dove carichiamo il Guzzone sull’aereo che ci riporta a casa.
E’ stato un viaggio affascinante ed infernale, che ci lascerà ricordi ed emozioni indelebili, e mentre l’aereo decolla, sto pensando che un giro in Asia …

IL GIRO DEL MONDO DI UROS E METKA – Il Cammello di Mandello

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Il Cammello di Mandello

di Uros Blazko

Introduzione di Sostene Chiaranda

Con questa prima puntata, iniziamo una serie di racconti, relativi ad un viaggio molto particolare fatto da amici Sloveni; Uros Blazko e sua moglie Metka Salehar.
A seguito di un buon guadagno in Borsa, Uros decide che questi soldi li “userà” per un viaggio in giro per il mondo a bordo di una Moto Guzzi.
Uros viene aiutato da dei “supporters” nell’acquisto di una Moto Guzzi Quota 1100 ES, ed inizia i lavori di allestimento del motociclo per affrontare il suo viaggio. Quindi prepara anteriormente dei supporti per due taniche da 20 litri cadauna, una per la benzina ed una per l’acqua, che poi una volta superato il Deserto del Sahara saranno eliminate, così da poter spostare il carico della moto sull’anteriore, e monta posteriormente una coppia di borse in alluminio di notevole capacità.
Per quanto riguarda il primo continente, e cioè l’Africa, il viaggio ha toccato i seguenti Paesi:
Marocco, Mauritania, Mali, Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria, Camerun, Repubblica CentroAfricana, Congo, Uganda, Kenia, Tanzania, Malawi, Zambia e Zimbabwe.
Il viaggio ha inizio il 5 settembre 1999, e mentre nell’emisfero nord dall’autunno si passava all’inverno, in quello sud stava nascendo la primavera. Basta girare nel globo alla giusta velocità ed ecco che possiamo viaggiare in un’estate eterna!
Siamo in Marocco, il nastro nero d’asfalto ci porta in uno spazio immenso di sabbia giallastra, il sole si sposta nel cielo così in alto che non ostacola lo sguardo, ma è così forte e lucente da dare l’impressione che splenderà per sempre!
L’Atlantico si trova alla nostra destra, il Deserto ci circonda, mentre la Guzzi ingoia i chilometri attraversando il Marocco verso Dakhla, città nell’estremo sud del Marocco e luogo dove i viaggiatori si radunano prima di attraversare il Deserto del Sahara.
Da qui si procede in convogli che vengono scortati per motivi di sicurezza da militari dell’Esercito Marocchino. Ma questi ultimi hanno anche il compito di evitare che viaggiatori “particolari” abbiano dei contatti con gli abitanti di quella che una volta era una Colonia Spagnola, e che ora è il Sahara Occidentale. Essi lottavano per la liberazione ed ora vivono confinati, nei pressi delle rare Oasi nel Sahara. La pista che stiamo percorrendo è minata a destra e a sinistra.
Il convoglio parte due volte la settimana e si perde un giorno intero solo per procurarsi il lasciapassare e i permessi dell’esercito e della dogana marocchina. Il mattino seguente i militari controllano tutti i documenti e organizzano la colonna dei veicoli; la partenza avviene a mezzogiorno, e quando arriviamo al confine con la Mauritania è già buio. Ci portano a dormire in una fortificazione militare composta da poche costruzioni vuote e prive di arredamento, e al chiarore dei fuochi e al canto dei Mauritani ci addormentiamo in un sonno profondo.

 

Il risveglio non è stato dei migliori: qualcuno mi ha rubato durante la notte la borsa da serbatoio della moto. Dentro la borsa c’erano degli attrezzi e le cartine stradali, cose che per il ladro non avevano nessun valore, ma per me erano importantissime, e malgrado la denuncia fatta al Comandante del convoglio e la susseguente perquisizione fatta sui mezzi del convoglio stesso, non si trovò niente. Disperati per la perdita del materiale, ripartiamo alla volta della Mauritania, dove incontriamo per la prima volta la sabbia e per attraversare il confine bisogna oltrepassare un alto mucchio di ghiaia.
Le tre motociclette del convoglio superano l’ostacolo senza problemi, mentre i fuoristrada hanno bisogno di una spinta. Proseguiamo per circa sessanta chilometri fino alla città di Nouadhibou, dove termina la scorta del convoglio e ognuno è lasciato libero di proseguire da solo.
La Mauritania è un Paese poco sviluppato e quasi privo di turismo; la maggior parte della popolazione vive nel sud del Paese, dove si dedica all’agricoltura vicino al fiume Senegal.
Le città sono composte da case basse col tetto piano, e sono collegate da ampie vie raramente asfaltate, e dove terminano le case terminano le vie e comincia la sabbia. La gran parte degli abitanti della Mauritania sono Mauri, discendenti dagli Arabi e dai Berberi.

 

E’ mezzogiorno e a causa del calore tutti si ritirano all’ombra, così ci fermiamo anche noi e mentre ci riposiamo scambiamo alcune parole con Abdullah, che ci dice: “Noi rispettiamo ogni fede, anche gli infedeli”, ma dopo pochi minuti Abdullah ci vuole convertire alla fede di Maometto. Ad un certo punto egli incomincia a spiegare i diritti delle donne musulmane, e allora Metka si alza e se ne va, e il nostro colloquio si interrompe bruscamente.
E’ giunta l’ora di attraversare il Deserto del Sahara; nel convoglio ci sono dei commercianti con degli autocarri carichi di vecchie automobili che devono vendere in Senegal delle auto e oltre al nostro Quota ci sono anche altre due moto.
Subito c’è una discussione per il costo della guida:“Duecento Franchi Francesi per ogni veicolo sono davvero troppi!” dice uno dei motociclisti; “La guida guadagna più di me!”.
“Non è troppo per chi apprezza la propria vita!” gli risponde il suo passeggero, e gli ricorda cos’era successo la volta scorsa, quando hanno tentato di attraversare il Deserto da soli: ad un certo punto avevano perso l’orientamento, e avevano girovagato per due giorni, l’acqua era finita ed erano in preda alla disperazione quando per caso furono trovati da un indigeno che passava di lì!
Fadel era la migliore guida, e in fondo cos’erano duecento Franchi in confronto alla vita?
Con l’altra moto (un’Honda Africa Twin) c’è Fred, un Sudafricano che ritorna a casa dall’Inghilterra, con cui mi accordo per fare un viaggio insieme in futuro.
Ci aspettano cinquecento chilometri di sabbia per attraversare il Deserto del Sahara, e quindi decidiamo di partire l’indomani di buon mattino.
Si parte, ma i problemi cominciano immediatamente. La nostra Guzzi sovraccarica di bagagli e delle due taniche di benzina e d’acqua affonda nella sabbia, non riesco a farla andare dritta.
Fadel ci dice che la moto è troppo carica e con questa andatura rallentiamo tutto il convoglio, cosicché decidiamo di caricare il bagaglio, le taniche e anche Mekta su un’auto.
Alleggerita la moto e superati i sessanta chilometri all’ora, la moto si solleva sulla superficie della sabbia e ora sembrava di volare.
Le auto, quasi tutte molto vecchie, con il vento che soffiava forte da dietro rispetto al senso di marcia cominciano a surriscaldarsi, e allora bisogna fermarsi e girare le auto verso il vento con il cofano aperto, in modo che si raffreddi il radiatore.
Fadel, molto preoccupato, ci raccomanda di restare vicini per aiutarci nei frequenti insabbiamenti.

 

Con tutti questi inconvenienti, alla fine di questa prima giornata nel Sahara abbiamo percorso solo un terzo del tragitto. Mangiamo qualcosa e ci sdraiamo sfiniti dentro ai sacchi a pelo, addormentandoci sotto il chiarore delle stelle.
E’ mattino, ci svegliamo coperti dalla sabbia portata dal vento, e dopo una rapida colazione si parte per compensare il ritardo accumulato il giorno prima. Tutto il giorno a guidare, spingere veicoli insabbiati, riparare i guasti sulle auto dovuti all’alta temperatura, e alla sera finalmente il riposo, mangiando dei grossi pesci acquistati sulla costa Atlantica, e poi via dentro il sacco a pelo.
Il terzo giorno di questa dura attraversata del Deserto del Sahara ci ritroviamo a viaggiare sulla costa Atlantica, ma in una zona coperta di aréna, (una sabbia finissima che quando si bagna diventa molto insidiosa), con da un lato il mare e dall’altro alti mucchi di aréna. Siamo costretti a passare prima delle due del pomeriggio, prima cioè che salga l’alta marea. Al nostro passaggio su questa “trappola di fango” notiamo che alcuni non hanno fatto bene i conti, e l’alta marea li ha colti di sorpresa: i loro mezzi sono intrappolati e sommersi per metà da questo impasto di sabbiolina ed acqua. Sto seguendo le auto e gli autocarri, ma correndo dietro di loro vengo tradito dalle profonde impronte lasciate dai mezzi che mi precedono e non riesco neanche più a contare le volte che io e la mia Guzzi siamo finiti a terra. Fadel si accorge di questo e mi fa andare in testa alla colonna. Ora mi trovo a viaggiare a centoventi chilometri orari come un fulmine, e la Guzzi lascia solo delle leggere impronte sull’aréna bagnata; dal mare mi arrivano addosso gli spruzzi d’acqua e vedo stormi d’uccelli spaventati che fuggono verso il mare.
Fred con la sua Honda mi insegue non senza difficoltà, e mi raggiunge appena in tempo per avvertirmi che al prossimo bivio devo svoltare a sinistra, è mezzogiorno e davanti a noi scorgiamo tre antenne molto alte: sono la conferma che siamo vicini alla capitale della Mauritania, Nouakchott. L’attraversamento del Sahara è durato due giorni e mezzo.
A questo punto lasciamo il convoglio e in compagnia di Fred ci dirigiamo verso il Mali, ma ormai sta sopraggiungendo la sera e decidiamo di accamparci. Il tempo promette un temporale di quelli tosti: i fulmini solcano il cielo, ma poi -per fortuna- in pochi minuti il vento spazza via tutto e non cade neanche una goccia di pioggia. Seduti davanti al fuoco, Fred si conferma un profondo conoscitore dell’Africa, dandoci una serie di consigli, e poi ci dice: “Quando accamperete nel sud dell’Africa dovrete stare attenti che il fuoco non si spenga: gli animali feroci li potete tenere lontani solo con il fuoco, non hanno paura di nient’altro. Il sistema migliore da adottare è quello di sistemare dei rami secchi attorno all’accampamento, in modo da accenderli nel momento che vi doveste trovare in pericolo”. Improvvisamente Fred fa un sobbalzo, prende un ramo ardente e uccide uno scorpione che stava passeggiando tra i miei piedi; solleviamo la coperta dove ci siamo sdraiati e ne troviamo altri tre! Fred uccide anche questi e ci dice: “Quelli piccoli sono velenosi come quelli grandi, e siccome si spostano sempre in gruppetti, se non li uccidi tutti è meglio che sposti l’accampamento”. Si riparte e per tre giorni, viaggiamo sui bordi delle piste allagate, è appena finita la stagione delle piogge e dove il ciglio della pista non è percorribile lottiamo con sabbia, fango e buche enormi, ma il confine con il Mali dev’essere vicino. Arriviamo in un villaggio, tra i muri di case di fango, arriviamo nella “piazza centrale” e siamo subito accerchiati dagli abitanti del villaggio, alti di statura e dalla pelle nera come il carbone, che prima ci guardano e poi ci toccano con curiosità. Dopo qualche istante, mi faccio coraggio e chiedo: “Mali?” e loro mi dicono di no, e mi fanno un cenno in direzione di una montagna; dopo pochi minuti sulla pista resa scivolosa dalle piogge la moto perde aderenza e scivolando si ferma giusto davanti all’Ufficio Doganale del confine con il Mali.
Ma chi ha chiamato l’Africa il “Continente Nero”? Io e Metka lo abbiamo trovato rosso! Rosso per il colore del sole verso sera, rosso per la pelle bruciata, rosso per la laterite che quanto è bagnata ricopre i nostri vestiti di fango rosso e quando si secca si volatilizza nel vento formando nuvole rosse. L’unica cosa non rossa è la giungla, con le sue piante verdi e la strada asfaltata, che la pioggia riesce a malapena a lavare.
Siamo sul valico di confine di Ekok, che divide la Nigeria dal Camerun; pensavamo di sbrigare velocemente le pratiche per attraversare il confine, invece le guardie Nigeriane ci hanno fatto perdere tutta la giornata. Quando siamo arrivati al confine con il Camerun, la guardia camerunense ci dice: “Ti è piaciuta la Nigeria?” “Ma…”, io non so cosa rispondere, e lui sbattendo i timbri sui nostri passaporti: “Il Camerun ti piacerà di più!”.
Ripartiamo per addentrarci in Camerun, l’asfalto sparisce e ci ritroviano a viaggiare in una pista fangosa che a volte è profonda anche più di un metro: a malapena riesco a vedere al di fuori di essa.

Il Cammello di Mandello

Mentre guido a fatica, perché la moto scivola da tutte le parti, penso a come farò ad uscire da questa “specie di vasca”. Ci fermiamo al primo villaggio e seduti su dei tronchi ci beviamo due birre calde; nel frattempo si avvicina un giovane, ci saluta molto cordialmente e cominciamo a parlare con lui. “Da qui fino a Mamfe ci sono sette villaggi, non abbiate paura: sarete accolti bene!” ci dice, e noi gli chiediamo: “ Com’è la strada?” “Siete fortunati, la stagione delle piogge è terminata due settimane fa! Prima era impossibile spostarsi”.
Salutato il giovane, ripartiamo in direzione di Mamfe, e lungo la strada troviamo tanti gruppi di uomini che camminano in fila indiana ed hanno in mano dei macete, ma fortunatamente ci salutano alzando la mano non “armata”. Dopo un po’ giungiamo in un punto molto difficile: Metka scende dalla Guzzi, e camminandomi davanti mi indica i punti dove passare. Tutto d’un tratto la moto comincia a scivolare lateralmente: il cavalletto urta il bordo della pista, io perdo l’equilibrio e finisco insieme alla moto con le ruota all’aria dentro al fosso profondo due metri! Quando ho riaperto gli occhi, ho capito di essere stato molto fortunato, perché la moto cadendo sottosopra si è “appoggiata” sul manubrio e sul portapacchi colmo di bagagli, e questo ha fatto sì che rimanesse dello spazio sotto alla moto permettendomi di uscirne indenne quasi miracolosamente.
I danni alla Guzzi sono minimi in confronto al “volo” fatto: il parabrezza è a pezzi, il manubrio storto, ma tutto il resto è OK. Adesso il problema è tirar fuori la moto da questo maledetto fosso!
Qui dicono: “In Africa non si è mai soli….” e anche stavolta è così: nel giro di qualche minuto è arrivata gente del posto, e così abbiamo rimesso in carreggiata il “Mulo di Mandello”. A questo punto bisognava festeggiare, e così, insieme alla gente che ci ha soccorso, siamo andati al vicino villaggio di Seyumojock ed abbiamo offerto loro da bere.

Il Cammello di Mandello
Siamo al tardo pomeriggio: il cielo è scuro e coperto di pesanti nuvole, e nell’indecisione se ripartire o no stiamo chiaccherando con Celestine, autista di un vecchio camion Unimog, diretto anche lui a Mamfe. Cosa trasporti non lo so, però il carico è pesante, in più sul cassone ha tre ruote di scorta e alcune persone. Io credo che il peso superi le tre tonnellate.
Lui mi dice: “Gli affari sono affari! Se le balestre si rompono, le sostituirò.” All’improvviso sopraggiunge un auto: è l’Ispettore delle strade, e ci dice che se vogliamo partire lo dobbiamo fare subito, perché altrimenti chiuderà la sbarra e non si potrà transitare per la strada finchè non smetterà di piovere. Questo lo fanno per evitare che la gente si trovi senza aiuto, impantanati con le auto. In un attimo due autovetture e Celestine con il suo vecchio camion spariscono nel buio, mentre Metka ed io decidiamo di rimanere. La guida notturna è pericolosa, la moto ha solo un fanale e la luce in queste situazioni non è sufficiente, i buchi formano delle ombre tremende sulla strada e una buca potrebbe causarci un altro incidente. Per oggi uno è più che sufficiente.
Durante la notte in una specie di Chiesa del villaggio è cominciata una strana cerimonia: la voce del Predicatore si espande tra le capanne del villaggio: “Più forza” urla, “Più fede, per unirci con il Redentore” grida in una misto di Inglese e non so di quale altra lingua. Gli abitanti del villaggio presenti rispondono alle sue preghiere, e spesso cantano una canzone monotona, poi un’altra predica ed un’altra canzone. Fuori incomincia a piovere, e ci addormentiamo in preda a degli incubi. E’ mezzanotte, sono svegliato dalle urla di donne e dal rullare dei tamburi. Il Predicatore che urlava ancora più forte: “Più forza! La salvezza è nelle mani del Redentore!” A questo punto non resisto: mi alzo e mentre mi metto le scarpe Metka mi supplica di non andare, ma invano. Davanti alla Chiesa un gruppo di uomini mi impediscono di entrare: intravedo solo le luci delle candele e ascolto le voci. Le urla della donna all’interno si sono calmate, gemeva come se facesse l’imitazione di una scimmia; il Predicatore gridava e gli uomini ripetevano dopo di lui: “Rivelati! Dimmi il tuo nome! Vieni fuori!”. Uno degli uomini mi spiegò: “Questa donna è posseduta da uno spirito di scimmia, però è stata fortunata per non essere posseduta da uno spirito di serpente o di coccodrillo, perché in quei casi l’esorcismo durerebbe tre giorni! Lo spirito malvagio del serpente a volte non si può esorcizzare”. “Che cosa succede ad una donna così?” gli chiedo, ma lui non mi risponde. Non potendo fare altro rientro nella mia stanza e Metka mi chiede cos’è successo: “Non me lo chiedere! Stai attenta: non passeggiare da sola nella giungla!”
Dopo la notte trascorsa insonne ci alziamo e fuori non piove più, il cielo è ancora minaccioso ma la sbarra è aperta, così decidiamo di partire immediatamente da quel posto. Poco dopo abbiamo raggiunto le due auto che erano partite la sera prima ed erano rimaste impantanate nel fango, a bordo i passeggeri dormivano ancora. Altri due chilometri più avanti troviamo Celestine con una gomma forata, le tre ruote di scorta sgonfie… mi fermo per dargli una mano, ma lui mi ringrazia e mi dice di continuare, è abituato a queste cose. Ora la strada comincia a farsi ripida e con il fango che c’è è un miracolo rimanere in piedi. Dopo qualche centinaio di metri vedo un cartello di lavori in corso: chiedo ad un uomo, che nel frattempo è salito dalla giungla, che lavori stanno facendo e mi dice che stanno spostando dei tronchi che sono caduti sulla strada indicandomi dove posso passare per aggirare l’ostacolo. Dò una rapida occhiata, e mentre metto la prima penso: “Non ce la farò mai!” La ruota posteriore slitta sul fondo fangoso, poi sento che fa presa al terreno a strappi, la moto avanza! Ormai manca poco all’apice della salita, un ultimo salto, fuori dalla “grondaia di fango” ed eccomi in cima! “Siiiii! Ci sono riuscito!” gridavo pazzo di felicità, e mentre mi giro a cercare dove fosse Metka, che era salita a piedi, vedo due uomini dietro alla moto coperti di fango dalla testa ai piedi! Mi hanno spinto per tutta la salita, e io ero convinto di essere un grande centauro!!!

Il Cammello di Mandello

Anima Guzzista è arrivata anche in Scozia

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di Aquila Ribelle

Ebbene si amici Guzzisti un poco per scaramanzia e un poco per modestia, nessuno di Voi sapeva che avrei partecipato, con mia moglie e la mia Vecchia Aquila (Leggi Caly II), alla “4a Motovacanza” organizzata dalla FMI che quest’anno prevedeva un Tour in Scozia, ma ora al mio rientro a casa e senza nessun problema meccanico se non la rottura della lampadina del fanalino posteriore, posso mettervi a conoscenza della mia avventura. Una settimana prima della partenza, la moto è stata portata nell’officina “ La Guzzi Service “ per un controllo generale e il cambio di olio e filtro.

La partenza è avvenuta alle ore 06.00 del 14 u.s. e sono riuscito a partire in orario perché la moto era stata caricata la sera prima, il viaggio è stato tranquillo, il percosso stabilito prevedeva: Raccordo Anulare, Roma – Fiumicino, Autostrada A12 fino a Civitavecchia e poi Aurelia, recuperata una coppia di amici Senesi a Gavorrano, abbiamo proseguito per Rosignano dove abbiamo ripreso la A 12 fino al bivio con l’A15 raggiungendo Bareggio alle 15.30 per un totale di 680 Km. Dopo una serata a Magenta organizzata dal locale Motoclub, eccoci pronti l’indomani mattina per iniziare l’avventura: i partecipanti sono 31 e le moto 20, fra queste solo due Guzzi, la mia e l’EV degli amici senesi, le altre sono Honda, Kawasaki e BMW, certo mi sento in soggezione davanti a tanta potenza e gioventù (infatti sono moto al massimo di 5 anni) ma so che posso contare sulla forza dell’esperienza della mia “Vecchia”.

La tappa di oggi ci porta da Magenta a Thionville per un totale di 671 Km, attraverso la Svizzera alla quale dobbiamo pagare una tassa di 30.00 Euro per il transito in autostrada, e poi la bellissima campagna Francese fino alla nostra meta. Il tempo è buono fa molto caldo e il morale è alto per la nuova avventura, l’unica nota stonata è il passaggio sotto la galleria del San Gottardo, 17km di galleria a doppio senso di marcia dove NON puoi superare gli 80 km/h e NON puoi sorpassare, una vera tortura per il caldo asfissiante e il rumore. Arrivati in albergo, doccia e poi tutti a cena. Il giorno successivo dopo un’ABBONDANTE colazione, di nuovo in viaggio perché oggi ci aspettano solo 365 Km per arrivare a Zeebrugge (Belgio) attraversando il Lussemburgo, dove ci imbarcheremo sul traghetto che ci porterà al porto di Rosynt, purtroppo il tempo inizia a perturbarsi e infatti appena saliti a bordo un violento temporale si abbatte sulla nave ancora alla fonda ma noi siamo già al coperto, però questo non ci rassicura e abbiamo ragione. Il traghetto è bello, le cabine un poco “claustrofobiche” ma la compagnia è buona e dopo una cena luculliana ci ritiriamo per riposarci visto che siamo solo all’inizio del viaggio e ci aspettano ancora tanti Km.

Sbarcati in Scozia, dopo appena 22 Km eccoci ad Edimburgo dove ci fermeremo 2 giorni. La città e stupenda e si possono visitare parecchi monumenti tra i quali Il Castello e la residenza della Regina quando si reca in visita alla Città. Il tempo non è clemente, pioviggina e fa freddo e mentre noi giriamo imperterriti per la città vestiti con abiti autunnali, gli “aborigeni” sono in maniche corte e sandaletti. Rimaniamo estasiati, come già detto dalle bellezze della Città ma la stessa cosa non possiamo dire della cucina, anche perché alle 18.00 tutti i negozi chiudono ed i Pub si riempiono di gente, e per trovare posto per “mangiare” è problematico. Partiti da Edimburgo Venerdì 20 dopo 210 Km, eccoci ad Aberdeen, passando per Perth, Forfar, Montuosee Stonehaven, durante il percorso, visitiamo il castello di “Glamis” (notevole) e quello di “Dunnotar” (visto uno, visti tutti). Purtroppo non possiamo visitare la cittadina perché domani mattina ci aspetta un altro trasferimento. La mattina dopo il cielo è plumbeo e noi, “scafandrati” affrontiamo i 198 Km. che ci porteranno ad Inverness, durante il tragitto ci fermiamo alla distilleria “Glenlivet” dove dopo una visita guidata allo stabilimento ci viene offerta (ragione della nostra visita) una (udite udite): degustazione gratuita. Proseguendo verso Inverness, non possiamo esimerci dal visitare il sito della battaglia di Culloden dove nel 1796 i Giacobiti (Scozzesi) combattendo per la propria indipendenza, vennero sconfitti dagli Inglesi, comandati da William Augustus soprannominato, a fine battaglia “il macellaio” a causa dell’enorme quantità di scozzesi uccisi. Il luogo si presenta come un’immensa pianura, da un lato il campo degli Inglesi, abbandonato alle erbacce, perché a detta del vecchio guardiano “concimare la terra è l’unica cosa che gli inglesi sanno fare bene” e dall’altro, una foresta, tenuta in condizioni di pulizia ed ordine incredibili, dove si erano attestati gli Scozzesi. La battaglia fu così cruenta che alcuni Clan Scozzesi scomparirono definitivamente essendo morti tutti i rappresentanti maschi. Durante la nostra visita molti sono stati gli Scozzesi, nel loro abito tradizionale, che abbiamo visto passeggiare sul sito della battaglia e dirigersi verso la foresta, evidentemente il senso di indipendenza dall’Inghilterra è ancora forte. Sarà romanticismo ma visitando quel luogo e vedendo le persone che a distanza di tanto tempo ancora lo visitano, mi sono commosso, facendo miei i loro sentimenti.

La mattina dopo, domenica 22,è prevista la circumnavigazione del “Loch Ness” ma a causa del cattivo tempo (siamo sempre vestiti in abiti autunnali, molto consoni ad una vacanza in moto) optiamo per la navigazione in motonave dello stesso per raggiungere il “Castle Urquart” , scenografico insediamento sull’omonima baia risalente al 1300. Tutti gli occhi sono puntati sulla superficie del lago nella speranza, poi rivelatasi vana, di vedere Nessy, che poi abbiamo saputo non è potuta apparire perché aveva già un appuntamento per una visita di controllo data l’età. L’indomani mattina, ci apprestiamo a percorrere i 296 Km. che ci consentiranno di visitare l’isola di Skye. Durante il percorso ci sono le visite ai castelli di Eilean Donan e Dunvegan Castle e in serata si arriva a Kyleakin dove pernottiamo nell’unico albergo disponibile, forse risalente agli anni 30. Il paese è piccolissimo ed un tempo sarà stato abitato solo da pescatori mentre oggi tutto ruota attorno al turismo. La mattina ci svegliamo con un bel sole che nel giro di due ore sparisce sotto una coltre di nuvole e quindi siamo costretti a partire di nuovo con la tuta da pioggia per percorrere i 284 Km. che ci separano da Glagow. Il paesaggio che attraversiamo è forse quello più bello visto fino ad ora, si tratta di una serie di montagne non molto alte ma percorse da una strada molto panoramica che ci offre degli scorci mai visti. Le moto vanno tutte bene a parte 3 forature occorse ad una BMW e a due Nipponiche, ma per loro fortuna non hanno le camere d’aria e quindi possono ripararle sul posto, io stingo perché pur avendo una camera d’aria di scorta in caso di forature in mezzo alle montagne dove lo trovo un gommista? Ma grazie a San Carlo Guzzi, ciò non avviene e quindi posso proseguire. Strada facendo ci fermiamo in un area di sosta perché a 10 mt. ci sono due alci che pascolano liberamente, fregandosene dei turisti che armati di ogni attrezzo di riproduzione le ritraggono. Non faccio in tempo a spegnere il motore che vengo affiancato da un signore che in perfetto dialetto Toscano mi fa “Oh via ma l’è proprio arrivata fin qua? Bella la mì Guzzi, l’ho riconosciuta prima ancora di vederla” e così abbiamo saputo che era l’autista di un gruppo di Senesi che erano anche loro in Scozia, baci e abbracci tra gente mai vista (cose che facciamo solo noi Italiani quando siamo all’estero e incontriamo un connazionale) e finalmente abbiamo potuto bere, dopo giorni di “ciofeca” un vero caffè fatto con la macchinetta Lavazza che avevano sul pullman. Ripresi il viaggio ognuno per la propria meta, la sera arriviamo a Glasgow dove piove e fa freddo.

L’indomani mattina è prevista una gita all’isola di Arran ma a causa degli orari dei traghetti non confacenti al nostro ruolino di marcia, optiamo per la visita alla città la quale mi lascia molto deluso, non ha nulla della vecchia Glasgow, infatti è una città piena di università e l’unica cosa antica rimasta è la cattedrale dedicata al patrono della città San Mungo, costruita nel 1136 e sopravvissuta alle devastazioni degli Anglicani. Il giorno dopo, data della partenza che con 98 km. ci porterà nei pressi di Edimburgo per l’imbarco verso il Belgio, PIOVE e tale tempo ci perseguita fino all’imbarco su traghetto che avviene alle ore 16.00. Saliti a bordo finalmente possiamo disfarci di tutta l’attrezzatura antipioggia e riposarci. La notte purtroppo non è delle più tranquille a causa del mare mosso e l’indomani mattina allo sbarco non tutti hanno riposato, compreso il sottoscritto, e qualcuno si è anche sentito male, ma bisogna partire perché dobbiamo affrontare 563 Km. per arrivare a Strasburgo sfiorando Bruxelles e Metz. Arrivati per l’ora di cena ci corichiamo presto perché l’indomani mattina nei 443 km che dobbiamo percorrere è anche compreso il passo del San Gottardo che decidiamo di affrontare per evitare 10 km. di fila e l’incubo della galleria. Nel tardo pomeriggio arriviamo a Lesa, sul lago maggiore, dove è in corso il TTN 2007, al quale partecipiamo dopo una calorosa accoglienza da parte degli organizzatori per l’impresa realizzata.
Il giorno dopo fatti i dovuti saluti ai 31 partecipanti ognuno riprende la propria strada e a noi ci aspettano ancoro circa 600 km per arrivare a Roma. Alla fine del Tour il tachigrafo segna 5035 Km. che sentiamo tutti, soltanto Lei la vecchia California classe 1986, da alcuni partecipanti al Tour soprannominata il “trattore”, ancora gira e sembra non accusare la stanchezza. L’indomani mattina dopo un lavaggio e un cambio olio, si riposa nel suo Box sfottendo le altre consorelle che sono rimaste a casa, mentre Lei si è sentita anche solo per 15gg la regina dell’Europa.

Aquila Ribelle

“… lei rumba là sotto”

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di Francesco Zironi (Minatore)

Nuovo giorno.
Mi aspettano lezioni, professori che arrivano in ritardo, aule piccole per studenti troppo numerosi e una città che ogni giorno si illumina di un sole pallido la mattina in queste prime giornate di ottobre.
I miei dormono ancora quando indosso i guanti e salgo in sella, giro la chiave, aspetto che le pompe benzina e olio si rianimino, spingendo fluidi necessari all’anima meccanica di questa creatura che ho chiamato Piccolina.
Premo quel tasto e Lei si rianima, vibrante di scuotimento piena. (insieme al vicinato sdegnato per l’inusuale sveglia ndr).
Ingrano la marcia, rilascio la frizione, di nuovo felice.

Rapidamente scorro i portici che ogni giorno mi accompagnano in questa città, percorrendo l’asfalto che porta di là dagli appennini, lasciando di qua, prima una Porta, poi l’altra, verso l’autostrada, ho fretta e non posso divertirmi sui passi – scelta obbligata quindi.
Imbocco il viadotto, saluto il santuario di San Luca che dai colli abbraccia Bologna appena illuminata da una rosea alba e raggiungo l’A1.
L’aria frizzante con un brivido scuote anche me, sotto la giacca di pelle, ma i km devono correre veloci, non posso soffermarmi sui particolari, così che sfido l’asfalto, la moto e me stesso lasciandomi dietro solo il rombo degli scarichi aperti.
Raggiungo le vette, presto, i guanti invernali sarebbero stati una scelta migliore.
Sulle curve dell’A1 la v11 è inesorabile, veloce copre le distanze senza chiedere altro e arrivo rapido a destinazione dove annego tra una lezione e l’altra pensando alle nuove curve che mi aspettano… sinuose mi chiamano.
Probabilmente mi si legge in faccia la distrazione, fatico a stare attento ad una lezione di costruzioni quando Piccolina è a pochi metri, nel cortile.

Passa una giornata, ma le lezioni oggi non durano fino a tardi, 17:45, c’è abbastanza luce e tempo per dedicarsi a più ludiche faccende… tiro uno sguardo alle colline di Fiesole, sorrido e ripeto i gesti che donano vita a Lei, ogni volta.
Appena il tempo di riempire il serbatoio di nuova linfa e raggiungo Via Bolognese, voglioso di curve.
Risalgo le colline che sovrastano la città (che vista da lassù, si vede l’opera del Brunelleschi, bella come non mai) e mi lascio definitivamente alle spalle gli studi, i professori, i compagni e gli impegni toscani,
Passo qualche paesino, poi presto raggiungo Vaglia, svolta a sinistra seguendo la E65, costeggio Barberino e sorrido, davanti a questa strada incredibile, perfetta.
Curve Curve Curve!!!
Una dopo l’altra, senza sosta si susseguono mettendo a dura prova me, non certo Piccolina che da settimane non aspettava altro; lei rumba là sotto, felice, assecondandomi, ora che è bella calda. Lei senza incertezze, io ancora non rinuncio a qualche maldestro tentativo di impostare bene una curva – ormai sono due anni che guido, ma ancora devo farne di strada per imparare davvero e la Futa è il posto migliore dove imparare.
Correndo veloci sull’asfalto i pensieri svaniscono, lasciando spazio ad una maggiore percezione di noi, e della macchina sotto di noi. Aprire gas, percepire la spinta, accompagnandola, chiudere gas prima di una nuova curva e poi lentamente riaprirlo accompagnando la moto rapida nel suo correre verso il nostro nuovo obiettivo ecco, finalmente ci riesco.
Tornanti in successione, poi di nuovo tornanti: uno dopo l’altro ti sfidano ed è bellissimo vincere la sfida e ritrovarsi in cima, e ancora ansiosi proseguire più avanti su nuove curve. Anche qui fa freddo, ma qui si sopporta volentieri e presto abbandono il passo Futa, seguendo per la Raticosa. Ancora curve! Ancora felice – io e la mia moto.
Ora so cos’è l’Anima Guzzista.

Pensieri, parole, opere, missioni

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di Alberto Sala

“La vita è una cosa seria, molto spesso tragica, qualche volta comica”
Carlo M. Cipolla

“Pensavo di passare per Berbenno, da lì salire a Brembilla e poi vediamo”.
L’idea di Mattia mi sorprende e magicamente mette a fuoco un itinerario che desideravo ma che non avevo tracciato altrettanto lucidamente. Avevo in mente la val Brembana ma ipotizzavo da lì il salto alla Seriana via Serina. Ma col nuovo itinerario ho avuto l’impressione che avrei attraversato qualcosa di nuovo: sono luoghi conosciuti e spesso legati alla gioventù più lontana e scoutistica, ma il sentiero d’asfalto tra Berbenno e Brambilla nello schermo interno non si era materializzato nitidamente.
“OK, d’accordo!”

Mi piace il Mattia. E’ uno che non si sottrae al porsi i grandi quesiti esistenziali, quelle domande frutto di inquietudine istintiva, di desiderio di ricerca, di bisogno ardente di conoscere la verità o quantomeno di cercarla avidamente, laddove (come spesso accade) non sia così apertamente manifesta. L’istintivo attimo ti prende inaspettatamente ed è importante se possibile non sentirsi soli di fronte ai tremendi dubbi che ti possono cogliere anche la mattina, di fronte allo specchio, prima di radersi.

“E’ veramente la doppia accensione la via maestra, il vero grande big bang?”
“la via della perfezione passa attraverso quale camma? La OSS, la KS? O la via mediana, la RS?”
“E’ cosa buona e giusta montare i filtri K&N?”

Sono quesiti terribili. Solo gli allocchi, dediti esclusivamente alle umane faccende e appesantiti dai loro pesanti fardelli di guai e miserie, non comprendono l’ardore interiore. E’ bene essere pronti alla chiamata. Chi è già passato (indenne o meno) da questo oscuro tunnel, chi ha già intravisto un bagliore di luce se non quantomeno l’uscita di emergenza venti metri a destra, sente il dovere solidale come la mannaia all’albero motore. Così, col pomeriggio del sabato libero, non ho esitato a chiamarlo, nel compendio della nostra missione.

Lasciata la zona preda dei CentriCommercialisti, dopo S. Omobono (non a caso) si comincia a respirare, noi e i nostri motori. Posso cominciare a focalizzarmi su altro che non abbia più di due ruote e più di due cilindri (volendo anche quattro candele ma aspettiamo a risvegliare i quesiti). Sto a poca distanza da Mattia, diciamo a tre quarti in estasiatica contemplazione, investito dal sano aerosol dei Lafranconi riservato competizione, sì, quelli neri con le eliche, che abbinati al Le Mans producono il suono più bello mai cantato da un motore terrestre. Eppoi, stare dietro al Le Mans è sentire i poli piliferi delle basette risvegliarsi, è sentire sciancrarsi perfino i pantaloni di pelle e scintillarsi la camicia oltre all’animo mentre Sly Stone stridula che è un affare di famiglia e i rimbombi dalle eliche suonano come il basso rotolante della canzone.
Questa moto è un salto nel tempo: è esaltazione infinita, è strappo ad ogni tristezza, è egocentrismo, è egostimolante, è ego_ e ci attacchi qualsiasi cosa. Ecco io mi sarei presentato allo Studio 54 in sella alla Le Mans, con Grace Jones ad attendermi. E’ vero, la V7 è stata la prima icona seventies ma… manca l’immagine sulla Le Mans altrettanto evocativa di quella di Mike Hailwood, con quegli splendidi pantaloni a zampa in tessuto damascato. Chi non avrebbe voluto essere altrettanto iconizzato sulla Le Mans?

Brugarolo, Ravagna, Berbenno, Laxolo, Brembilla. Il sentiero sale senza esagerare, ci divertiamo un poco a far rincorrere i rombi liberi dei nostri cavalli senza cercare troppa ansia di velocità, non solo per il viscido nelle zone ombreggiate. Ci sono sempre i grandi pensieri ancora vaganti. Così lasciamo il bivio per la Val Taleggio a periodi più asciutti, scendendo a sud, lambendo le cave di Sedrina e svoltando a sinistra, su per Zogno per la strada maestra.

Da Bigio a San Pellegrino troveremo riparo e conforto. Le papille gustative saziate di paste, ma soprattutto le retine oculari appagate dalle conferme. Non c’è stata persona di passaggio che non si sia fermata ad ammirare i due strumenti di piacere. Incontriamo anche uno splendido 850 T3 California e una Norton Commando già conosciute dal Mattia, così le chiacchiere per un po’ raddoppiano. Poi, nell’intimità del cappuccio e del caffè, torniamo ai nostri pensieri profondi, purtroppo colpevolmente ignorati dal gotha della psicologia comportamentale, ma tant’è. E’ vero che non c’è una via unica scientificamente provata: ogni ricercatore, che abbia presentato studi o meno, propone la sua via. Chi libera le anime rimappando, chi eleva alesando, chi valorizza valvolando, chi libera semplicemente le anime degli scarichi. Devi dar retta al tuo istinto quando le soavi voci delle sirene si sommano fino a non percepirle più singolarmente, facendo attenzione che alcune voci assieme diventano coro, altre solo rumore disarmonico. Così come l’elevazione dell’orchestra ai palcoscenici più prestigiosi non necessariamente avviene in una sola tappa.

Così, seduti al tavolino al cospetto dei nostri capolavori, il disquisir si rasserena a giocoso funambolismo e a Mattia comincia a delinearsi meglio il destino del suo V11 Cafè Sport. Nel frattempo e ancor più al ritorno ci penseranno le nostre moto a diffondere il nostro credo più intimo, proseguendo la nostra missione: la diffusione per ogni dove e quando, per ogni valle e calle, del verbo di Carlo, del pensiero di Giulio Cesare, della visione di Lino. Nei secoli dei secoli, amen.

Buon Natale Randazzo

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di Valter Veltre
Finalmente e’ il 23 dicembre,siamo tutti stipati all’esterno della fureria in attesa che il tenentino spina milanese ci rilasci i permessi firmati dal colonello Messina per poter trascorrere qualche giorno di festa in compagnia dei nostri cari.

Fa un cazzo di freddo che nessuno di noi qui di Roma si ricordi,pare che l’Arno a Firenze sia ghiacciato e i bergamaschi non fanno altro che prenderci per il culo per come battiamo i piedi in terra,come fossimo prostitute al bordo delle strade intente a non congelarsi i piedi.I sardi sono i piu’ euforici,grazie sicuramennte alla bottiglia di filo e ferru che si passano di mano in mano dopo averne ingollato un tot.C’e’ aria di festa, finalmente, e tutti non vediamo l’ora di uscire da questa caserma che poi e’ la nostra prigione.Siamo Autieri confinati all’8° O.R.E.caserma punitiva. Siamo “guasti” come i veicoli militari che qui transitano per le riparazioni,siamo un centinaio di “fusi”, tutti raggruppati in 5 stanzoni ciascuno dei quali conta 10 brande a castello. Chi piu’ chi meno abbiamo problemi “caratteriali”come risulta dalle nostre cartelle mediche militari e lo Stato ha pensato bene di unirci tutti insieme per non creare casini altrove.Ma noi ce ne fottiamo,va bene anche cosi’,tanto qui non ci facciamo mancare nulla,dalle salsicce calabresi all’erba dei bresciani…

Randazzo e’ il primo ad essere chiamato,questo ci lascia indifferenti perche’ noi sappiamo con chi abbiamo a che fare.Randazzo e’ uno psicopatico con gli occhi neri come la morte,i capelli come la mani unti dal grasso che gli lorda la mimetica con la quale dorme anche di notte.Randazzo parla una lingua tutta sua,e’ sempre incazzato con il mondo e quando incroci il suo sguardo e’ meglio abbassare gli occhi.L’unico con il quale scambia due battute e’ Comparelli,un meccanico di moto, appassionato come nessun altro del suo nuovo Guzzi Le Mans 1000 fresco di pacca, comprato dopo anni di sacrifici a lavorare in officina con il padre.Randazzo non ne vuole proprio sapere che la Honda 750 Four non puo’ reggere il confronto.Per Randazzo le Honda sono le moto piu’ veloci in assoluto e basta!E Comparelli abbozza.

E’ logico che sia il primo ad entrere in fureria e rititare il permesso per tornare a casa… ma… dal tempo che trascorre a rapporto con il tenentino spina milanese capiamo che qualcosa non quadra. Randazzo esce con gli occhi lividi di vendetta,le narici sono come
quelle di un toro irriso nell’arena,le gambe e le braccia piegate come quelle di un manichino scaricato in un immondezzaio perche’oramai inutilizzabile. A Randazzo hanno sterminato tutta la famiglia in un agguato fra cosche rivali.Altro che permessino, altro che buon natale…per la sua incolumita’ ordini superiori hanno deciso che deve rimanere in caserma in attesa di ulteriori sviluppi nelle indagini volute dal magistrato
di turno. Nessuno di noi ha il coraggio di lasciarlo da solo.St’anno Natale lo facciamo tutti insieme qui in caserma e… cazzo Randazzo deve tornare a casa!

Il Guzzi 1000 Le Mans di Comparelli e’ parcheggiato sotto l’altana dove FORTI non e’ di guardia,il piano e’ semplice… brindisi benaugurante con ROIPNOL… ufficiale di turno svenuto in branda Randazzo catapultato al di la’ del muro,noi beati a giocare a tombola.
Cosi fu’.

Di Randazzo,originario della provincia di Cosenza,non sappiamo mai che fine abbia fatto….il Le Mans 1000, Comparelli lo recupero’ dopo che “scontammo” un mese di naja supplementare,come punizione, a Gradisca,in un parcheggio a pochi passi da casa sua.

Buon Natale Randazzo.

Valter Veltre.

Il troppo sdoppia

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di Lupastro

Il troppo sdoppia. Mi riferisco all’alcol ovviamente, e le due ruote non è che siano di grande aiuto, anzi, già mantenerle l’una davanti all’altra pare cosa impossibile….. Per fortuna Calispera conosce la strada e dolcemente mi accompagna cullandomi nel rollio dei pistoni, mi coccola garbatamente trovando traiettorie inimmaginabili tra la nebbia della mente. Il lampeggiare delle frecce, in verità un po’ tardivo, pare il disegno d’un fuoco d’artificio, la bizzarria pirotecnica di un artigiano partenopeo. Dietro il muretto, troppo vicino ai pneumatici, si apre il golfo di Sorrento, davanti a me, ritto e perentorio, il passo dello Stelvio.
Sotto le ruote il duro asfalto e sopra al cupolino la vastità delle stelle, lacrime brillanti, diadema eccentrico mollemente indossato da un cielo nero come il carbone.
Sento una mano percorrermi l’esofago in senso contrario, il rigurgito acido sale i condotti e temo voglia spandere nel casco liquidi salmastri. Trattengo prima il fiato per alcuni secondi e poi sfogo l’impellenza in un rumore assordante, fortunatamente è solo gas che appanna la visiera, un odore acre che pervade l’intercapedine. Devo stare attento se la strada è dritta per troppo tempo credo di potermi addormentare mentre un dubbio mi corrode da alcuni kilometri, temo di aver dimenticato le dita della mano sinistra sul tavolo dell’osteria. So di riuscire a tirare la frizione ma non so come succeda, non sento le dita dentro al guanto, neppure un formicolio….niente, la stessa sensazione provata lustri indietro dopo un robusto tè all’afgano nero, il braccio destro mi si nascose per tutta la notte, “inutile cercarlo – mi disse Asfodeo per tranquillizzarmi – vedrai che quando è stanco torna a casa da solo”. Asfodeo era mitico per alcuni, un coglione per altri, aveva iniziato a stare sui motorini ancora prima di camminare, si narra che la madre lo allattasse a benzina, se lo attaccava al seno che profumava di Castrol e lo teneva a ciucciare per ore con lo sguardo fisso su un calendario tette, culi e bronzine appeso alla parete. Il garage di Toni, il moroso della madre, era la loro casa ormai da tempo immemorabile , ancor da prima del grande sfratto, credo. Divenendo grande Asfodeo iniziò a masticare pezzetti di camere d’aria e, mentre i suoi amici si facevano di colla e mastice, lui sniffava ottani tagliati con acetone alla nitro. Quando era in vena di stramberie prendeva pistola e compressore poi, dopo aver riempito il serbatoio di sverniciatore sparava a raffica bordate contro gli scootter che parcheggiavano davanti al garage. “Odio Vespe e Lambrette” – amava ripetere mentre le colpiva con il cric del camioncino, ma questa è un’altra storia ed è troppo tardi per raccontarla, e poi, in fondo penso non interessi a nessuno, me la tengo per un’altra volta.
Intanto stento a ritrovare anche le dita della mano destra, fortuna che riesco uguale a dosare il gas. Mi domando dove vada a nascondersi il filo dell’acceleratore quando scompare sotto al serbatoio, domani chiamo Murry o Ube e glielo chiedo, adesso è meglio non porsi troppe domande considerate l’ora e il freddo cane che fa.
Minchia ce li ho dietro. Vedo le luci blu roteare sul tetto della macchina dentro allo specchio retrovisore, sono ancora abbastanza lontani, forse riesco a trovare una tagliata prima che mi raggiungano. Cazzo mai un merdoso svincolo quando serve, mi accontenterei anche di uno sterrato, un sentiero, una mulattiera. Se questi mi beccano e mi attaccano all’etilometro mi sparano lì sul posto poi sputano sul mio cadavere, ho sentito parlare di carabinieri e poliziotti che uccidono i motociclisti solo guardandoti negli occhi, è per questo che è sempre meglio indossare occhiali scuri alla guida della moto.
Ecco il biancore di uno sterrato dietro al cipresso sulla mia destra, la curva è stretta ma se riesco a schivare l’albero e derrapo mollemente quel tanto che basta per imboccare il cancello m’infilo dritto come una supposta. Cacchio che comparazione infelice è come se avessi il sentore di infilarmi nella merda, ma il mio non è un eufemismo è proprio merda, è un letamaio e io ci sono dentro a mezza ruota. Il motore fa bloff, la ruota posteriore ruota sul posto e solleva schizzi di caccole e sterco, pianto giù i piedi e lo scarpone scompare nel magma, non fosse per la puzza penserei alle sabbie mobil, forse è qui che hanno girato Anacondai. Probabilmente avrei fatto meglio a dar retta a Bombos e a rimanere chiuso in casa stasera, d’altronde se io dessi retta a Bombos avrei già montato i semimanubri sul Cali, quindi lasciamo perdere.
Fortuna che il contadino ha il vino buono, ho dovuto comprargliene due damigiane per ripagarlo della tirata col trattore. –“Domani torno con la macchina e le vengo a prendere”- il villico mi guarda sorridendo, l’ho fatto felice erano anni che non vedeva una Guzzi – “Sa da giovine avevo un Falcone, poi l’età, la moglie, una cosa e un’altra…….”
Mi allontano, puzzo come un suino, il Cali puzza, se aspiro forte quasi quasi mi accascio come Dida e vomito al bordo della strada, d’altro canto se non ho vomitato fino ad ora perché dovrei farlo nei prossimi minuti? La domanda è interessante, ci penserò sopra.
Riprendo la strada, tutto è come prima, il cielo le stelle, i brillanti e tutte quelle puttanate che ho descritto prima., i vapori dell’alcol iniziano a defluire, meglio trovare un letto prima che svaniscano completamente, la notte è ancora giovane, io e il Cali molto meno.

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