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Duecento chilometri

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Duecento chilometri

di Marco Melillo

Duecento chilometri.
L’idea era quella di viaggiare, partire in macchina per un secondo tour in mezzo alle colline senesi, e dare il via ad una nuova avventura sulla via del ritorno. L’idea. Di fatto qualcosa si è modificato in corso d’opera, di quell’idea. E quel che ne è rimasto, ora, è quanto segue.
Un acquisto sconsiderato in periodo di crisi, un amore ai tempi del colera. un Guzzi Nevada 750 del 1991, con quarantanovemila chilometri sul groppone. e millecinquecento euri in meno sul conto.

L’idea del viaggio, dicevo, cambia non appena si monta in sella. E si monta in sella con una mezza sfida di tornare a casa da Arezzo, i duecento chilometri di cui sopra, dopo una sola prova su un Guzzino 350 al piazzale dei macelli, a Piombino, qualche giorno prima. Si parte, per fortuna, anche col supporto logistico e spirituale del Carlone, addetto al riportaggio della macchina a casa, alle indicazioni di viaggio, alle dritte in fase di guida, e a sopportare le mie inevitabili, numerose soste, previste e non. La lezione essenziale del primo giro si era limitata a come-si-cambia come-si-frena come-si-curva, e fondamentalmente sembra essere tutto.
In verità il primo approccio, a Arezzo, è con un cilindro che non vuole andare, un’accensione che sembra dare problemi, un tentativo (fallito) di partire a spinta. Poi, tra moccoli e magie, sempre col supporto impagabile di Carlo, è andata. Non mi chiedete come o perché, a un certo punto mi sono quasi convinto che ci avesse parlato, con la moto! Fatto sta che è andata.
Si parte, ovviamente, col cielo grigio topo che minaccia acqua: d’altra parte ho scelto io di andarmela a prendere a novembre. E si viaggia non sapendo la strada, fortunatamente guidati fino a fuori città dal vecchio proprietario che ci accompagna fuori dal delirio aretino per percorsi meno battuti.
Comunque, arrivati alla prima strada umana riconoscibile e ottenute le indicazioni, un saluto, una sosta per abbuffarsi e si riparte. Si scolletta a Civitella Val di Chiana, e solo dopo, guardando la cartina, mi rendo conto di che diavolo di strada abbiamo preso. Almeno ho rispettato le prescrizioni del foglio rosa, di certo non era troppo trafficata. Le sensazioni del primo momento sono strane, comunque. Mi sento teso ma divertito, insicuro ad ogni curva, e di fatto l’idea del viaggio passato a rimirare il paesaggio, a godersi gli odori della campagna in inverno, svanisce non appena scollettato. Devo stare attento alla strada, devo pensare alla guida, e l’unica distrazione che mi concedo è quella di ascoltare il motore ad ogni cambiata, per provare a impararlo.

Il resto sono curve a velocità da bradipo, una strada infilata per sbaglio che mi avrebbe portato chissà dove, poi l’immissione in quattro corsie. Lì, l’unica eccezione alla mancanza di occhio per tutto quello che non è la guida: arrivati quasi a Grosseto, complice la stanchezza che a distanza di tre giorni avrebbe continuato a pesare sulle braccia, si fa largo il bisogno di una nuova sosta, a riprendere fiato. E mi maledico per non avere con me la macchina fotografica, in mezzo alle colline, mentre il sole si va a spengere in un mare che sta là dietro, che c’è, anche se si riesce solo a intuirlo.
Pochi minuti, prima di rendersi conto che se sta tramontando è meglio muoversi. E’ meglio evitare di trovarsi su una strada che non conosco, su un mezzo che di fatto non so ancora guidare, di notte. Ovviamente le considerazioni arrivano tardi. Pochi chilometri prima di Grosseto è già buio pesto, e alla tensione che sale va anche a aggiungersi un anabbagliante bruciato mentre ormai siamo in vista di Follonica. Il panico vince sull’idea iniziale di rimanere solo visibile con le luci di posizione, e ci metto un attimo a sparare gli abbaglianti in faccia a tutti quelli che incrocio. Mi avranno odiato, probabilmente. Ma almeno ce l’ho fatta ad arrivare incolume alla Venturina, cambiare il faro da Paparo e ripartire verso casa senza aver tirato a dritto neanche in una curva, scampando alla pioggia, dopo aver salutato e ringraziato Carlo, ovviamente mai abbastanza.

Duecentonove chilometri. Niente rispetto ai resoconti di viaggi infiniti verso il nordeuropa, ai racconti di curve improponibili e paesaggi da lacrime. Ma sono i miei primi in sella alla moto: un banalissimo viaggio di ritorno da Arezzo a Piombino in mezzo ad un paesaggio alla fine abbastanza familiare, durante la stagione più brutta in cui lo si può vedere. Ma è il mio piccolo primo viaggio, e mi andava di condividerlo. Provare a raccontarlo per quello che è stato, e pensare di scrivere di quel che sarà.

Duecento chilometri Duecento chilometri 2

 

 

 

 

Parole in CO2

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PAROLE IN CO2

di Paolo Gambarelli (Mototopo)

Immobile
goccia dopo goccia
la mia Guzzi
instabile da tempo
in attesa dell’eterno congiungimento
di oleose stalattiti e stalagmiti.

Si dice che l’amore sia lo specchio della nostra anima.
Forse ci si dovrebbe innamorare fino a perdere la testa.
…per poi guardarsi allo specchio e non più trovarsi?
Sarà forse questo il dilemma di un guzzista quando, sfuggente in moto,
si cerca allo specchio di una vetrina?

Una pedana che incide l’asfalto di una curva è un po’ come il bisturi di un chirurgo nel mezzo di un’incisione circolare attorno al battito di cuore.

Spesso non è importante dire quello che si pensa della propria moto e nemmeno che gli altri condividano quello che pensiamo della nostra moto.
Alla fine è sempre più importante portare gli altri a dire ciò che vorremmo pensare della nostra motocicletta.

“Toglietemi ciò che è utile, ma lasciatemi il superfluo”
Oggi sono un uomo etico!
La mia coscienza si è fatta arbitro del libero arbitrio.
Domani sarò un guzzista etico! Lascio la moto a casa o rileggo con consapevolezza Baudelaire.

C’era un tempo delle caduche pagine di carta.
Oggi è il tempo delle volatili pagine dei siti Web.
Trovo di un certo fascino come in Anima Guzzista questa trasmigrazione di pagine avvenga su di un’aquila alata.

PAROLE IN CO2

C’è chi ha scritto che il guzzismo è quella malattia mentale di cui ritiene di essere terapia.
Finalmente è arrivato il tempo dell’accanimento terapeutico.
E’ probabile che verrà anche il giorno dell’eutanasia?!

PAROLE IN CO2

Una motocicletta rappresenta sempre il massimo sincretismo tra tecnica motoristica e tecnica ciclistica. Pare altresì che un V11 sia spesso l’estrema apologia di un rito Vudù, anche se alcuni sostengono che il sincretismo espresso nel culto Macumba sia più appropriato.

Ci sono periodi in cui, in modo alterno ed incessante, il mio sguardo è rivolto verso l’alto alla ricerca di una Fonte di Salvezza e verso il basso alla costatazione del personale Pozzo della Perdizione, impedendomi di fatto di fermare l’occhio all’altezza mediana dell’orizzonte. A quella altezza che è dell’alba e del tramonto e di ciò che vi è nel mezzo; a quella altezza che è di altri occhi e di un altro sguardo. A quella altezza che è di ciò che non ho.
Alle volte essere anche un solitario motociclista dal vigile occhio rivolto all’orizzonte è di aiuto.

E’ strano come ai piloti sia dato il compito di lasciare un segno di sé gommando e poi sgommando le tracce del loro passaggio.

Sentire l’urlo che riempie il vuoto è vedere il vuoto riempire la nudità.

PAROLE IN CO2

Sentire il rombo che riempie il vuoto è vedere il vuoto riempire la velocità.

PAROLE IN CO2

TRILOGIA SU DUE RUOTE

In garage

In strada

In pista
organi malfermi
serro
comprimo
e come prima sbucano,
sbocciano
dal carter,
tubi
torti
a vista,
liquidi nei punti morti
colano,
calci e urti di bielle
che non stanno,
snodi
su cui accanire
incastro di anni,
e vanno a vuoto
i colpi
d’occhio,
dadi rotti
le pupille
senza fuoco,
nebbia di nervi
che si stringono
addosso:
tra schiacciate ali
volo imploso
le mie marmitte
aperte
paesaggi malfermi
guardo
comprimo
e come prima sbucano,
sbocciano
all’orizzonte,
lamiere
torte
a vista,
corpi nei punti morti
colano,
calci e urti di guard-rail
che non stanno,
incroci
su cui accanire
incastro di anni,
e vanno a vuoto
i colpi
d’occhio,
semafori verdi
le pupille
senza fuoco,
groviglio di nervi
che si stringono
addosso:
tra schiacciate ali
volo imploso
le mie marmitte
aperte
avversari malfermi
inquadro
comprimo
e come prima sbucano,
sbocciano
alla curva,
carene
torte
a vista,
sudori nei punti morti
colano,
calci e urti di traiettorie
che non stanno,
frenate
su cui accanire
incastro di anni,
e vanno a vuoto
i colpi
d’occhio,
record sfumati
le pupille
senza fuoco,
elastici di nervi
che si stringono
addosso:
tra schiacciate ali
volo imploso
le mie marmitte
aperte

Si dice che il modo migliore per avvicinarsi all’essenza delle cose sia quello di immedesimarsi totalmente con esse.
A pieni polmoni e con bocca aperta come carburatore ho provato il più possibile a respirare aria, bevendo i liquidi più energetici fino a riempire il serbatoio del mio stomaco. Ho poi corso e corso con i più disparati moti alterni dei miei organi interni fino ad esaurimento delle mie suole di gomma; ma la mia defecazione non è ancora di biossido di carbonio.

Ogni volta che mi capita di entrare dall’ingresso principale di una concessionaria rimango sempre interdetto da tutta quella verginità motociclistica così ostentata. Forse è per questo che preferisco sempre entrare dall’officina.
Anche se, a dire il vero, quando andai all’EICMA ebbi più l’impressione di essere a una convention porno.

Parole d’amore alla mia Moto Guzzi

Il gioco con le parole può essere a volte come una droga. Un po’ come continuare a sfregarsi un prurito pur sapendo che poi complicherai la situazione. Il gioco di parole viene a volte lieve e senza sforzi ma poi spesso ti violenti a rileggerlo avanti e indietro, avanti e indietro con lo stesso immobile significato, proprio come uno sfregamento continuo che ripercorre con ostinazione il proprio solco. Lo starnuto è differente. Per lo starnuto ci vuole una grande e faticosa preparazione, un grande impegno preliminare sia fisico che mentale. Ma l’appagamento, il piacere e la serenità che ti dà lo starnuto ti ripaga sempre dell’impegno che hai dovuto precedentemente donargli.
Ecco perchè cerco di rifuggire lo sfregamento da prurito, del fraterno prurito. Sì, perchè lo sfregamento è fraterno, è sempre più o meno identico a se stesso e non ti conduce da nessuna parte. E’ tuo, te lo tieni e rimane comunque lì, immobile senza chiedere e dare nulla di più di quello che esso è. L’avvicendarsi dell’atto dello sfregamento può essere a volte come l’avvicendarsi delle parole in un cartiglio.
Lo starnuto invece è potenza, è vita, è liberazione. Dopo lo starnuto tutto è in qualche modo nuovo e libero da condizionamenti. E’ per questo che lo starnuto è spesso pericoloso, di questo bisogna essere comunque consapevoli; lo sfregamento da prurito fraterno, mai.
L’effetto dello starnuto è un po’ come il Big Bang. C’è un prima e un dopo, e il dopo non può che essere vita; un prima e un dopo così diversi e al contempo complementari. Lo starnuto, come il Big Bang è immediato; immediato come lo sono due sguardi che si incontrano.
E’ per questo che io ora non me la sento di accettare lo sfregamento del prurito fatto di parole fraterne e ritengo giusto e onesto credere alla favola dello starnuto, che è la favola della libertà; la libertà di ognuno di noi di decidere del suo futuro.
Che ci facciamo in fondo io e te delle parole? .

I 7 GUADI DI TRESCORE CREMASCO – Io sto con gli “Elefanti”

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I 7 GUADI DI TRESCORE CREMASCO
di Gianmarco Mirabile
 Foto di Simone Rambaldi e Paolo Sala

Mi piacciono le sfide che sfiorano il limite dell’impossibile. Mi sono sempre piaciute, ma questa volta ho superato me stesso. Dal 2006 conservo in garage una delle poco vendute, ma tanto divertenti Moto Guzzi TT35 dell’86 che ho subito battezzato col soprannome “Piggy” (la moto maiala). Non è in perfetto stato di conservazione ma per l’utilizzo da “battaglia” in città è ottima. E’ stretta, maneggevole e il manubrio largo (è come un Renthal) facilita molto il controllo del mezzo. L’ampio angolo di sterzo aiuta a disimpegnarsi nello slalom tra le auto. Il cambio, coi rapporti corti, trae d’impaccio in molte situazioni imbarazzanti tipiche del traffico cittadino e con esso il motore diventa tanto pronto che pare di avere il doppio dei cavalli reali. Piggy è approdata nel mio box quando il precedente proprietario l’aveva già Supermotardizzata: il parafango crossistico alto davanti ha lasciato posto all’Acerbis filo ruota; i soffietti, per riparare dai sassi gli steli forcella, sono stati asportati, come pure la pesante intelaiatura portapacchi sul codino; gommatura da stradale pura, per nulla adatta al fuoristrada. Se aggiungiamo anche le sospensioni snervate da vent’anni d’uso e una frenata che, quanto a potenza, lascia parecchio a desiderare, il quadretto è completo. Alcuni amici guzzisti che l’hanno vista (per parcheggiarla non uso cavalletti, l’appoggio col manubrio contro il muro “alla randagia”), hanno commentato con frasi tipo: “La tua è una moto da rapina!”. Mi è pure capitato d’essere fermato, in città, da normali appassionati in sella a supersilenziose moto orientali che mi hanno detto: “E’ proprio bella, non ho mai visto una Guzzi così. È unica, hai fatto proprio una bella special!”. Già, la mia nonnina non dimostra affatto i suoi ventidue anni, complice anche una bella vernice blu elettrica metallizzata che la svecchia dandole quel pizzico d’aria giovanile da moto sbarazzina.
Settembre 2006. Ricevo una telefonata dal mio amico Simone, un “malato” d’Enduro che possiede una sacrilega (per noi di Guzziland) Honda Transalp che m’invita a partecipare ad una gara amatoriale d’Enduro riservata solo a “pachidermici” bicilindrici off-road ed ai monocilindrici di ALMENO centocinquanta chili di peso. <<Piggy di cilindri ne ha due e siamo ben oltre i 150 kg, vuoi venire?>> Lì per lì gli rispondo con un sì deciso, senza pensarci troppo. Passati due minuti, realizzo quello che mi ha appena detto e mi pento della risposta…ma la telefonata si è già conclusa e ormai il danno è fatto. Ci sono da considerare alcune cose. La prima è che il sottoscritto non ha mai e sottolineo mai messo una ruota in fuoristrada (se escludiamo la via di fuga in pista dopo un “lungo”). Ho da sempre posseduto moto sportive o comunque stradali, mai una tassellata prima di Piggy. Si capisce che affrontare per la prima volta nella vita un percorso fuoristrada, per giunta in una gara, è un’impresa che chiunque, sano di mente, considererebbe folle. In secondo luogo, Piggy l’ho appena acquistata e non ho ancora grande dimestichezza con essa.
Da Milano a Trescore Cremasco (CR), luogo in cui si svolge la gara, arriviamo in sella alle nostre enduro di media cilindrata con la statale. La trasferta è avvolta da foschia e umidità tipiche degli autunni padani. La manifestazione si svolge in un campo messo a disposizione da alcuni agricoltori appassionati di moto, per cui è richiesto l’uso di buon senso e civiltà per non recare disturbo a nessuno al passaggio con le moto. Alla manifestazione partecipano anche alcuni enduristi navigati come alcuni giornalisti di Motociclismo Fuoristrada o ex piloti navigati ormai in pensione. Sono previste tre prove speciali cronometrate in un fettucciato ricavato da un campo agricolo e tre giri di percorso entro-fuoristrada che comprendono anche due lunghi guadi. Alla fine della gara, grigliata per mettere tutti d’accordo, se non con l’inclemente cronometro, almeno con le gambe sotto al tavolo e la pancia piena. Arriviamo nel luogo dell’appuntamento (in ritardo) e c’iscriviamo tra gli ultimi. A me spetta il numero 109, che attacco con fierezza sul cupolino. Firmo lo scarico di responsabilità e poi briefing tenuto dall’organizzatore Luigi Corrù. <<Mi raccomando, – dice Gigi col microfono vicino alla bocca – siamo qui per divertirci e passare la giornata in compagnia. Evitate di strafare e, soprattutto, non fatevi male! L’ambulanza è presente ma non è necessario usarla…>>. Nel mio caso non c’è pericolo…a meno che non m’investa qualcuno. Nell’attesa d’entrare nel fettucciato, si forma un gruppetto di curiosi vicino a Piggy che mi fa domande sulla mia anticonformistica cavalcatura: l’unica Moto Guzzi presente alla gara! Sono fiero di me e della mia prode Piggy, compagna di mille avventure…e bla bla bla. La gente sembra divertita nel vedere la mia moto (e forse anche me, che sono vestito da tutto tranne che da Endurista!). Pare un chicco di riso dentro un formicaio tant’è insolita.
Ed eccoci alla gara. Tocca a me: mi posiziono sulla linea di partenza e aspetto il via del commissario di gara. Tre, due, uno… parto sgommando con la ruota posteriore (sulla terra battuta con le gomme stradali è facilissimo!) e affronto la mia prima, vera ed entusiasmante curva in fuoristrada. È subito panico! Le moto che hanno girato prima di me, un centinaio in tutto, hanno già creato i solchi e le cunette sulle quali bisogna appoggiare le gomme per fare le curve nei fettucciati. Abituato ai parametri di tenuta gomma-asfalto ai quali sono ormai assuefatto da anni, devo rivedere completamente il mio stile di guida: qui le ruote si muovono in continuazione e la sensazione d’aderenza precaria mi fa irrigidire come non m’era mai successo. Alla seconda curva dopo il via, perdo l’anteriore e la moto s’appoggia a terra. Pork!…da sotto il casco impreco, pensando che sono solo alla seconda curva e son già orizzontale. La situazione non è per nulla rassicurante se penso che ho ancora circa due chilometri di fettucciato da affrontare. Provo a rialzare il Gùss ma nulla, la tecnica delle braccia sotto la sella che tirano in su, spingendo coi quadricipiti, e il ginocchio che aiuta la manovra non ha efficacia. Sembra un elefante accasciato tant’è pesante, nonostante l’estetica snella e la maneggevolezza nella guida su asfalto facciano apparire il contrario. Mi vengono in soccorso dei ragazzi e mi aiutano a rialzare la moto. Ho la fronte imperlata dal sudore. L’avviamento elettrico Lucas non mi tradisce e il motore si riavvia prontamente. Non m’abbatto e caparbiamente ci riprovo. Inserisco la prima e riparto, tenendo bene a mente i consigli di Simone: il cerchio anteriore da 21’’ è fatto per passare sopra agli ostacoli: per farla curvare la devi inclinare e tu devi restare col busto verticale. <<Un gioco da ragazzi per uno che consuma le saponette della tuta di pelle in pista e non mastica di fuoristrada da quando è nato – penso ironicamente tra me ->>. Affronto il rettilineo che segue per intero il lato del campo con la sgradevole sensazione di non controllare il mio mezzo. Qui non ci sono tasselli ruota a mordere il terreno. Ogni canale che la ruota davanti incontra viene seguito fedelmente…anche contro la mia volontà! Per non farmi venire un infarto, procedo a velocità bradipo, forse pure un po’ più lento. Ho il polso destro bloccato dall’insicurezza, non mi fido a dare gas. Maledetta paura di cadere! Sembra di stare seduto su di un veicolo in equilibrio precario che fa un po’ ciò che vuole lui, non io. E’ un po’ come salire in sella per la prima volta e reimparare a guidare da zero. Strano dopo tutti questi anni in sella, ma molto, molto stimolante. Ho scoperto un nuovo modo d’intendere la motocicletta quando ormai pensavo che questo mondo mi fosse molto familiare. Mi sbagliavo, e confermo la teoria di chi dice che, nella vita, non si finisce mai d’imparare. Esco indenne dal fettucciato, riuscendo a cadere solamente una seconda volta. Poi campo, strada bianca e…guado. Mammamiaaiutoooo! Il percorso prevede l’attraversamento di un paio di canali per lungo, guadi veri e propri, non semplici pozzanghere da raccontare come “mari aperti” agli amici al bar. L’acqua è profonda in alcuni tratti fino a 60 cm e sul fondo ci sono ciottoli grossi e viscidi che si muovono col peso della moto. Un pazzo! Gomme stradali, acqua sopra i perni ruota, gas costante e…doccia assicurata dagli schizzi che salgono dalla ruota anteriore. Prima di entrare, ho chiesto informazioni sulla fattibilità del guado (per me e il mio mezzo) a degli enduristi navigati lì presenti che mi hanno risposto: <<Sì sì, i ciottoli sul greto sono stabili e non sono un problema anche con le tue gomme stradali, vai tranquillo! L’importante è tenere il gas costante.>>.
“Vai tranquillo!”: frase celebre che hanno detto al tizio che poi è finito in galera e gli hanno rubato la moglie.
<<C’è poco da stare tranquillo, – mi suggerisce il mio istinto – ma ormai sono qui, perché non provare?>>. Una persona sana di mente avrebbe trovato svariati motivi coerenti per non affrontare il guado, come il fatto che, se cadi a mollo, oltre a tornare a casa bagnato, torni pure senza moto, perché se entra l’acqua nel motore lo fai fuori. Io invece ne ho fatta una questione d’orgoglio personale, mi sono appigliato al pretesto di fare un’esperienza nuova. Ho puntato la ruota anteriore verso l’acqua e mi ci sono tuffato. Non so come ho fatto, ma non mi sono né bagnato più di tanto, né sono caduto ed ho passato il guado miracolosamente indenne. “Kickn’ass” dicono gli statunitensi in slang, colpo di culo (si può dire?) tipico del principiante, la traduzione italiana. Dopo il guado, il percorso prevede di passare in un prato con erba umida, forse il tratto meno impegnativo del percorso insieme con l’attraversamento del campo coltivato a pannocchie e solcato dalle enormi ruote dei trattori. Passaggio tecnico in un bosco, scollinamento nell’alveo d’un torrente pieno di fango dal quale è impegnativo cavarsi fuori. Una mano da colleghi motociclisti per uscirne e lo spirito di gruppo che ci rende fratelli mi fa riemergere insieme a Piggy sull’altra riva.
La guida in piedi sulle pedane del Guzzi TT35 è piacevole ed aiuta a controllare bene il mezzo. Lo sguardo dall’alto, inoltre, fornisce una visione più completa di ciò che succede davanti per quel che riguarda condizioni e praticabilità del fondo sul quale mettere le ruote. Le pedane sono da fuoristrada vera, coi dentini in ferro che mordono la suola in gomma degli stivali. Il manubrio è davvero larghissimo, e questo aiuta ad alleviare, con la sua leva, la fatica che si affronta in fuoristrada per il peso elevato complessivo della moto. Il motore Moto Guzzi, accoppiato al cambio coi rapporti corti, è una manna dal cielo e mi non mi ha mai messo in difficoltà. Merito della regolarità di funzionamento ai bassi regimi che ti permette di puntare il gas e di trottare a passo d’uomo godendoti il panorama (ma non era mica una gara?!).
Il sole cala all’orizzonte, gli ultimi passaggi si affrontano coi fari delle moto che creano nei campi un’atmosfera suggestiva. Sembra di vedere dal vivo le foto in notturna delle moto che partecipano alla Parigi-Dakar. Da pelle d’oca. Per concludere la serata, cena tutti insieme tra birra, salamella e ravioli. Nei giorni successivi, leggo con sorpresa sulla rivista mensile “Moto ON-OFF Lombardia” un articolo che parla di questa manifestazione e un commento di Corrù che mi fa sobbalzare dalla sedia: <<Per Gigi c’è un solo vincitore morale, il pilota di una Moto Guzzi con gomme stradali che ha faticato non poco a terminare tutta la gara>>. Follia o passione lascio a voi deciderlo, io, però, mi sono divertito un sacco.

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ll mio 1° elefantentreffen

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di Alessandro Soriga

Come ho già avuto modo di scrivere sul forum, doveva essere l’anno scorso, ma per motivi che non sto qua ad elencare è saltato e ho rosicato per un anno intero, ma allo stesso tempo è stato un anno dove psicologicamente mi sono caricato al punto che mi sentivo “invincibile” rispetto a qualunque avversità.
Tra una chiacchiera e l’altra qua nel forum, prendiamo accordi con nettuno61 per partire assieme, lui c’è già stato l’anno scorso, è sicuramente utile essere in due, ma se uno ha anche già un po di esperienza è ancora più utile. Decidiamo di evitare di portare “doppioni” e oltre alle cose personali, ci accordiamo su ciò che può essere utile ad entrambi: nell’ordine io porto un paio di kg di pasta, del ragù, 4 bottiglie da lt 1.5 di vino da me prodotto, 1 di mirto, idem come per il vino, 1 di filuferru circa 4 kg di carne, un segaccio, 1 roncola, 1 graticola, 1 pentola per la pasta, 1 colapasta, 1 caffettiera, , caffè, pane carasau, pane tipo spianata, sale fino e grosso; nettuno a livello alimentare è fornito circa allo stesso modo, ha in meno il vino ma ha in più il latte per la “classica” colazione italiana, fornello e soprattutto NAVIGATORE.
Due giorni prima della partenza lo chiamo e gli dico “invece di aspettarci in strada sotto a qualche ponte, perché non vieni a casa, pranziamo e poi partiamo assieme?” e così abbiam fatto; giunti a casa sistemiamo bagagli e specchietto della sua in quanto reduce da una caduta, fortunatamente senza conseguenze serie ne per se ne per la moto e si parte. 40 KM esatti e la moto di nettuno si ferma!! Una controllata generale e…… la batteria non va; la moto non accenna a dare segni di vita a livello di corrente, tira fuori l’avviatore rapido e la moto riprende magicamente vita, si pensa immediatamente all’alternatore che non carica e nettuno mestamente dice: “il mio elefante finisce qua; cosa ti posso dare? Hai l’attacco per l’accendisigari? Ti do il navigatore” “l’unica cosa che puoi prestarmi è il fornello, attacco per l’accendisigari non ne ho” e cosi il mio viaggio prosegue in solitaria, so che devo andare verso Monaco e verso Passau, durante il viaggio sino all’imbarco a Golfo Aranci continuo a pensare che andrà tutto bene,. . . . che in qualche modo me la caverò e intanto continuo a bestemmiare per l’acqua che viene giù, ma intanto mi ha permesso di testare la tuta: non è filtrata una goccia d’acqua.
Mercoledì 28 sbarco a Livorno (io sarei voluto partire il mercoledì, ma nettuno ha insistito per partire il martedì perché quest’anno l’inverno è particolarmente rigido e per chi come noi neve e ghiaccio ne vede 1 volta ogni 10 anni è meglio essere previdenti) e chiaramente prendo direzione autostrade. Forse per chi sta “in continente” il problema non si pone, ma i miei ricordi scolastici di geografia non sono molto vivi e ad un certo punto vedo l’indicazione Parma – Genova verso sx e Firenze – Bologna verso dx, che faccio? Grossomodo ho l’idea di dove sia situata Bologna ma… Parma? So che è in Emilia, ma la dislocazione geografica in questo momento non l’ho presente; Genova non è la direzione che mi interessa, . . . . e se vado in quella direzione e trovo uno svincolo per Parma che poi magari è la direzione giusta? Intanto proseguo, quando mi trovo al bivio opto per Bologna e a posteriori riguardando il tutto sulla carta a mio avviso è stata la scelta migliore. Il viaggio prosegue tranquillamente sino a che tra Barberino del Mugello e Roncobilaccio capisco che i miei guanti assieme ai paramani autocostruiti non sono proprio il massimo, ho un freddo intenso alle mani e inizio a dubitare anche sugli stivali.
Procedo senza particole fretta perché in me rimane la convinzione di essere in anticipo di un giorno, arrivo a Trento intorno all’una, non so come ma decido di dirigermi verso la zona industriale, faccio un giro con la moto non vedo alcuna indicazione “Ristorante” chiedo in giro e mi indicano un edificio sulla mia sx, entro e mi rendo conto che è una sorta di mensa per tutte le aziende che operano li, comunque, primo, secondo, contorno acqua vino e caffè € 8.65, il cibo era buono, meglio di cosi non poteva andarmi, intanto le temperature sono abbastanza accettabili io ho indosso un paio di jeans, una camicia e la tuta, non sento freddo, tra me e me penso: “ non è che gli altri abbiano esagerato? Sono già a Trento, si vede anche un po di neve ma freddo nulla” . . . Mi è bastato arrivare a Bolzano per ricredermi: un’escursione termica verso il basso incredibile, mani e piedi ghiacciati generale sensazione di freddo e anche il viso e la testa iniziano a soffrire (ancora non avevo messo il sottocasco) a Vipiteno il freddo è ancora più intenso e più vado verso il Brennero più la neve a bordo strada aumenta e più le cose peggiorano, non sento più ne mani ne piedi, proseguo comunque e decido di fermarmi alla prima stazione di servizio per apportare qualche accorgimento all’abbigliamento; per le mani non posso fare nulla ma per tutto il resto posso intervenire eccome!!! Intanto sono quasi le 16.00 e noto che sono abbastanza vicino a Innsbruck decido di soffrire ancora un po e fermarmi direttamente li: Innsbruck sud, una bella discesa molto bagnata e ghiaccio tutto attorno, non sono abituato a queste situazioni, l’affronto a velocità alquanto moderata e appena entrato in città (la neve e il ghiaccio la fanno da padrone) inizio scrutare edifici e cartelli alla ricerca di un hotel, ma l’occhio sempre vigile al ghiaccio per strada, ad un certo punto . . . . dolce visione: ZIMMER! Hotel carino (in tutti i sensi: bello ma per i miei gusti un po caro € 52.00) moto in garage, che sta di fronte all’hotel in un piazzale più in basso, quasi un fosso. Noto che il piazzale è abbastanza pulito quindi non ci DOVREBBERO essere problemi per il ghiaccio.
Al mattino di giovedì faccio tranquillamente colazione, decido di portare su la moto e poi vestirmi con calma ma……… il piazzale è una lastra unica di ghiaccio spesso 5 o 6 cm. Mi faccio coraggio, credo sia inutile attendere, lo strato è troppo spesso e la temperatura è troppo bassa perché si sciolga; con molta cautela riesco a portare la moto fuori dal garage e dal ghaccio, ok è fatta. Mi vesto e sono le 8.45 pronto a rimettermi in viaggio (ero sveglio da molto prima ma ho preferito far sollevare un attimo le temperature, è giovedì e ho fatto già parecchia strada, non ho particolarmente fretta) parto, circa 30 metri, lo stop, d’istinto freno anteriore (sapevo benissimo che non dovevo toccarlo) e la moto è per terra!!! Danni: fortunatamente solo il parabrezza. La moto è stracarica non riesco in nessun modo a rimetterla in piedi e in quella stradina non si vede anima viva; la benzina continua ad uscire dal serbatoio, un rivoletto proprio sotto il tappo e io li ad osservare inerme. Dopo circa 10 minuti passa uno spazzaneve di quelli da città, piccolo, sembra quasi un giocattolo, faccio dei cenni all’operatore, molto gentilmente si offre di aiutarmi ma appena la moto arriva a circa 45° da terra inizia a scivolare dalla parte anteriore e di nuovo giù; cosi per due o tre volte alla fine il tizio avvicina lo spazzaneve “giocattolo” posiziona la benna di fianco alla ruota e finalmente siamo riusciti a tirarla su; nel frattempo io sono grondante di sudore, evito di mettermi in viaggio in quelle condizioni, mi levo un po di roba, faccio scendere la temperatura e poi mi rivesto che sono già le 9.30. Mi dirigo verso l’autostrada con molta prudenza e tengo ben stretto l’acceleratore in modo che “l’istinto” eviti di giocarmi nuovamente brutti scherzi; l’autostrada è parecchio bagnata e in certi punti c’è anche del ghiaccio, procedo ad una velocità di circa 90 km orari e con l’occhio sempre attento alle insidie dell’asfalto, inizio a pensare che strada debbo fare, sino a Monaco non dovrei avere problemi, . . . e poi? 15 minuti circa d’autostrada e mi sorpassano tre moto, 2 salutano il terzo rallenta un po e poi si rimette al passo degli altri, li osservo: stanno andando all’elefante se mi accodo ho risolto i miei problemi relativamente al dove andare ma sono troppo veloci per i miei gusti, intanto Innsbruck è sempre più indietro, la strada è sempre molto bagnata ma non sembra ci sia più ghiaccio, e poi. . . . . . se vanno forte loro perché non dovrei io? Mi metto all’inseguimento, 140, 150, 160 sono sempre più vicini, ma ogni tanto la moto tenta di andare per conto suo, ho paura ma devo raggiungerli, ormai sono a 700 – 800 metri è fatta, vedo i loro stop illuminarsi simultaneamente, LA POLIZIA, rallento anche io ma ormai sono con loro, si procede a circa 130 km orari, continuo a ritenere che sia una velocità eccessiva ma non posso perderli, dopo Monaco non saprei dove andare, invece svoltano per Salisburgo, ricordo che l’anno scorso controllando il percorso si poteva passare anche da li, ok, sempre appresso, sono talmente concentrato nella guida che non sento il freddo, so solo che il paesaggio era completamente bianco, persino gli alberi non riuscivano a mostrare il verde delle loro foglie, mai vista tanta neve e il freddo alle mani e ai piedi pian piano inizia a vincere sulla mia concentrazione di guida, lo sento sempre di più dopo circa 100 – 120 km decido di fermarmi alla prima stazione di servizio perché non sento più mani e piedi, nemmeno fossimo d’accordo vedo che loro prima di me mettono freccia per la stazione di servizio; presentazioni, 4 chiacchiere loro sono di Verona e dicono di essersi messi in viaggio alle 4 del mattino e ora avrebbero pranzato, si sarebbero fermati per la notte a Passau, mi trattengo con loro perché devo recuperare la temperatura e ormai non siamo distanti, se le strade sono così conto di giungere a Solla nel pomeriggio e poi decido se cercare un hotel o montare direttamente la tenda. Hanno una carta a testa, 1 la danno a me tanto loro sono insieme, . . . . . “nel caso dovessimo perderci” mai frase è stata tanto premonitrice!!!
Circa un’oretta di sosta e ci rimettiamo in viaggio, ormai ho stabilito che per i primi 100 – 150 km sto bene sia alle mani che ai piedi, quindi mi metto a ruota degli altri e non sto nemmeno attento alle indicazioni stradali, ma sempre attento al “culo” di chi mi precede; probabilmente non abbiamo fatto 10 km che vedo tutti e tre metter freccia a destra, penso “1 moto in panne?” accosto pure io, sfilo un guanto e prendo le sigarette ma. . . . . . azz stanno ripartendo!! Capisco in quel momento che la sosta era semplicemente per controllare la cartina, velocemente rimetto le sigarette in tasca, infilo il guanto e mi metto all’inseguimento, non hanno praticamente nulla di vantaggio, 400, 500 metri, li vedo scomparire dietro la curva e . . . . . . . affronto la stessa curva . . . l’autostrada si divide in tre direzioni, non sono sulla corsia di dx, devo prendere una decisione in una frazione di secondo, il traffico è intenso, prendo la diramazione al centro ma con la coda dell’occhio riesco a vedere i tre sulla rampa di dx fermi ad aspettarmi. Fine del “passaggio gratis” mi sto dirigendo a Salisburgo Zentrum, faccio inversione, cerco uno svicolo torno indietro e svicolo nuovamente per prendere quella rampa, chiaramente di loro più nessuna traccia, sarà passato più di un quarto d’ora; poco male, ho la loro cartina, imbocco la rampa, 100 mt e una rotonda 4 direzioni diverse….. quale prendo? Ok leggo il nome di un paese (non ricordo assolutamente quale) e un numero: 35 immagino sia il numero della strada, statale o provinciale, imbocco per la 35, mi fermo e controllo la cartina:
1 mi rendo conto che essendo stampata da internet arriva sino a Passau;
2 non compare il nome del paese appena letto;
3 ci sono un sacco di strade e stradine numerate ma nessuna col 35!!
Stiamo calmi, riflettiamo: torno alla rotonda o proseguo? Ok decido di attraversare questo paese che sulla carta non esiste, noto un cartello a distanza, vediamo di che si tratta: è un cartello pubblicitario, ma più in la ce n’è un altro e si scorgono nuovamente delle case, procedo ancora un po, male che vada tornare indietro sono un paio di km in più; il cartello ha ben scritto tra le altre indicazioni: PASSAU km 129 strada n. 20, è fatta, non ho più avuto bisogno della cartina in quanto Passau era segnalato ad ogni incrocio, ad ogni bivio, addirittura quando non c’era nemmeno da svoltare. Tra sosta per il pranzo ecc giungo a Passau intorno alle 16.00, so che sono a circa 50 km dalla destinazione, ma non so assolutamente che direzione prendere, quindi decido per un hotel e……. domani incrocerò qualche moto.
Classica doccia e si va in giro per la città, mi rendo conto che il clima è più mite, lungo tutta quella statale il freddo è stato più intenso che altrove, ma una volta scavalcata l’autostrada, la A3, quasi fosse una linea di separazione tra due mondi diversi, il freddo ha iniziato a diminuire d’intensità cosi come la neve. Siamo a venerdì ore 08.30 mi metto in viaggio, si, ma in che direzione? Mi dirigo verso sud sperando di incontrare qualche moto ad un certo punto vedo un postino: una gran bella ragazza, parlo solo italiano, mastico due parole in inglese in croce ma vale la pena tentare: “bitte miss, i’m going to elefantetreffen, (e indicando con il braccio la direzione) here?” mi guarda, farfuglia qualcosa in tedesco, intuisce che non ho capito e risponde “i don’t” iniziamo proprio bene!! Nel frattempo passa una signora con un bimbo, immagino andasse all’asilo, si ferma ed esclama “elefantentreffen?” mi si illuminano gli occhi, azz…rispondo pure in tedesco “ja” una volta afferrato che non capivo mezza parola di quel che diceva, apre la borsa del figlio prende un pezzo di carta, un pastello e scrive B 12 FREYUNG, mi indica di proseguire nella direzione in cui andavo. Felice come una pasqua mi metto finalmente in viaggio verso Solla, questa B12 è molto bagnata e parecchie zone d’ombra, la paura di trovare dei tratti di strada ghiacciata è sempre presente, un bestione di camion mi segue a distanza ravvicinata, lo distanzio ma le zone d’ombra sono parecchie e mi riprende più e più volte; ho percorso esattamente 18 km e non ho incontrato nessuna moto, qualcosa non mi convince! 4 case messe in croce, decido di fermarmi e chiedere informazioni, chiaramente con la mia vasta scelta di vocaboli in inglese; un chiosco dove cucinano wurstel e altre robe tipiche della cucina tedesca, entro “hi, I no doich, I italien: 1 information please” lui, gran sorriso e la classica domanda: “elefantentreffen?” estraggo il foglietto B 12 lo mostro e lui subito “nein, nein” mi fa capire che devo tornare indietro 2 km, girare ad un bivio e poi…. Non ho capito altro; interviene la moglie che tenta di indicarmi la strada su una carta che hanno appesa li sulla parete, chiedo una penna per segnare in quali paesi devo passare, ma il marito ha un lampo di genio: entra dentro e riviene fuori con la penna e una carta turistica della zona, 1 di quelle dove ci sono segnate anche le vacche che sono al pascolo, mi traccia la strada sulla carta e me la da, faccio per pagare e mi fa capire che si offenderebbe, allora ordino una birra, € 2.10 pago con 5 e lascio il resto.
Ore 10.50 sono a destinazione: la mitica discesa dove mi hanno raccomandato di non andare con la moto, la mitica fossa e già un po di gente in giro; cerco di capire come funziona, chiedo ad un tizio che individuo come italiano “non saprei, è la prima volta anche per me” ok il più è fatto, mi affido all’intuito e all’istinto, non chiedo più a nessuno, pago l’iscrizione, entro dentro e cerco di individuare dove montare la tenda. I posti “belli” sono parecchio distanti e non ho voglia di trasportarmi il bagaglio in culo al mondo, scorgo uno spazio relativamente ampio senza nessuna tenda, è abbastanza vicino alla moto, la decisione è presa: mi piazzo li, mi guardo attorno, una bandiera austriaca e dall’altra parte qualcuno che parla italiano, ma sono un gruppo numeroso già organizzati per conto loro, non mi cagano nemmeno di striscio, completata l’operazionedi montaggio, mi accingo a legare all’esterno la bandiera dei 4 Mori. “Finito?” mi giro e appena più in qua della bandiera austriaca mi accorgo solo in questo momento che c’è una tendina “per conto suo” “ah, sei italiano anche tu? Qua solo? Lo sono anche io” inutile dire che ho immediatamente tirato fuori carne e vino e…. in serata eravamo in 5, tre single e due che sono venuti assieme, nel frattempo lo spazio relativamente ampio è solo un ricordo, strapieno di tende e se alla mia sx c’erano gli italiani, alla mia dx hanno montato i tedeschi che in breve tempo non stavano più in piedi e cascavano sopra le tende,qualcuna si poteva rimettere in sesto, altre andavano montate ex novo. Cazzo ma sono ad un passo dalla mia tenda, prima o poi accadrà . . . . . forse mezz’ora dopo uno casca e rotola un po, si ferma sulla mia tenda, lancio semplicemente un’occhiata che suppongo non sia passata inosservata in quanto nemmeno 5 minuti dopo si avvicinano 2 tedeschi, non sono sbarbatelli come gli altri, sono sulla 40ina o forse oltre, masticano un po di inglese, tra noi 5 c’è qualcuno che fa altrettanto, si scusano a nome dei “giovinotti”, ci spiegano che hanno fumato risolviamo il tutto con il classico “no problem” e giù birra da parte loro e vino (che viene apprezzato particolarmente) da parte nostra, si passa al mirto ed infine decido di aprire le danze con il filuferru, uno di noi 5 (fabio) dice “io non lo bevo ma mi piace l’odore, fai annusare” lo accontento ma noto in lui un’espressione perplessa, verso un goccio di liquido sul dito e assaggio: cazzo è acqua!!!! Mi sono scarrozzato per 1300 km 1 bottiglia d’acqua, non so come possa essere successo (lo capirò a casa quando ne parlo con mia moglie) ma la figura di merda è grande. Intanto il mirto inizia fare effetto e Fabio mi fa “ ma tu sei un guzzista convinto?” “non sono come i fondamentalisti islamici riguardo alla religione, ma per me la moto è solo guzzi!!!” “ beh se provi una bmw (possiede infatti una bmw, non so nemmeno quale modello) visto che ti piacciono i bicilindirici, hai lo stesso effetto della guzzi ma la sicurezza bmw, sai io ho avuto 32 moto…” lo interrompo immediatamente “ma una guzzi l’hai mai avuta?” “NO” “allora devi stare zitto!!!” si continua a ridere, scherzare e bere, non sono ubriaco ma un po brillo si. Si va a letto, i tedeschi continuano a fare un casino della madonna, sono abituato a situazioni del genere, riuscirò a dormire, anche se a sprazzi; intorno all’una o le due di notte, qualcuno “frana” sulla mia tenda, stavo dormendo ma credo che un fulmine ci avrebbe impiegato più tempo ad uscir fuori “scusa, italiano scusa” non so cosa tutto gli abbia urlato contro so solo che rientrato in tenda, dopo un po sento “italianschi . . . bla bla bla . . . fanculo… VAFFANCULO” la voce era un po sommessa, io ho difficoltà a prendere sonno, dopo una mezz’oretta evidentemente si è avvicinato qualcun altro a chiedere spiegazioni: “italianschi . . . bla bla bla . . . fanculo… VAFFANCULO” e prima di addormentarmi riesco a sentire ancora una volta la stessa frase, evidentemente senza rendermene conto sono stato ABBASTANZA duro. La mattina intorno alle 7.00 esco dalla tenda, i tedeschi sono ancora in piedi, uno si avvicina e con un sorriso mi dice “italiano, scusa” io non riesco a trattenere un sorriso e rispondo “vaffanculo” ridiamo, ci stringiamo la mano e subito mi porge una bottiglia con un liquido giallo canarino di un denso impressionante, “adesso voglio fare colazione, non voglio bere, vaffanculo” ormai il termine è diventato un modo per comunicare e ridere, tiro fuori la roncola e inizio a spaccare un po di legna per accendere il fuoco, il tedesco non mi da tregua, insiste con quella bottiglia ed io no, no, no!! Preparata abbastanza legna “sottile” per accendere il fuoco tiro fuori la diavolina e il tedesco inizia ad urlare dah dah dah e scuote la bottiglia, la stappa, versa il contenuto sulla legna, cazzo era accendifuoco liquido, ci siamo fatti una grassa risata, tiro fuori caffettiera, caffè e il fornello di nettuno, accendo ma in un minuto non c’è più gas, mi metto all’opera per sostituire la bomboletta di gas ma……. Che fornello strano, ha un incastro , si nota anche un pezzo di filettatura ma… non riesco in alcun modo a smontarlo; metto la caffettiera sul fuoco vivo idem faccio con il latte che ho comprato a Passau, nel frattempo arrivano i 2 italiani che erano giunti assieme, sono entrambi vigili del fuoco “ ho un lavoretto per voi” e gli porgo in fornello, sono diventati una barzelletta perché per loro è diventata una “questione d’onore”, ma dopo mezz’ora abbondante non erano divenuti a nulla.
Ore 09.00 i tedeschi riprendono ad essere instabili sui piedi e vengono giù come birilli, nel frattempo si è sparsa voce che all’indomani (domenica) in Italia ci sarebbe stata un’ondata di mal tempo con forti nevicate soprattutto al Brennero; intorno alle 12.00 c’era la metà delle tende rispetto alla sera prima, i due vigili del fuoco decidono che sarebbero andati via nel pomeriggio, gli altri due solitari coi quali avevo fatto gruppo hanno deciso di andar via ugualmente, tento di convincerli, non mi va di trascorrere tutta la sera solo, ormai è difficile anche per me trovare nuovamente compagnia, intanto i tedeschi preparavano un “cannone” che poteva soddisfare metà dei partecipanti al raduno, l’idea di dover “combattere” un’altra notte con i tedeschi, ma sopratutto l’idea di affrontare la neve (per un sardo credo sia una grande impresa) magari da solo, mi spaventa parecchio, quindi riesco a convincere gli altri almeno a pranzare li e anche se a malincuore, avrei voluto fare anche la sera di sabato, andare via: altra grigliata di carne e vino in abbondanza, specifico ai compagni che utilizzando la graticola, non posso caricare i bagagli se non dopo pranzo in quanto per come devo sistemarli sulla moto, la graticola è la prima da mettere, poi la tenda, poi i sacchi a pelo, successivamente la valigia ed in ultimo lo zaino. Fabio mi aspetta, l’altro (Gabriele) inizia ad andare in quanto va con il suo passo (90 – 100) e lo avremo raggiunto per strada. Mi affido a Fabio e sin dal raduno facciamo il giro esattamente al contrario ( infatti io sono arrivato da sotto mentre andiamo via da sopra) tutto procede tranquillamente 130 – 140, la strada per Monaco è bellissima, asciutta, poca neve e soprattutto poco freddo, sino a che giungiamo in Austria le temperature scendono repentinamente e la neve aumenta a vista d’occhio, iniziano nuovamente a gelare mani e piedi, ma almeno una volta la fortuna gira dalla mia: un ingorgo ci rallenta e recupero un po di temperatura, si va a singhiozzo, un po di km procedi regolare un po di km sei in mezzo ad un ingorgo, riesco a tenere temperature sopportabili, sino ad Innsruck, da li tirata unica sino a Vipiteno ma non ero più padrone delle mie estremità sia inferiori che superiori. Gabriele ci comunica via sms che si ferma ad Innsbruck, peccato, avevamo prenotato una camera per tre.
iil mondo è veramente piccolo: doccia, si va al ristorante dell’hotel e chi ti incontri? I 2 vigili del fuoco, si cena e si chiacchiera, ed io dico: “Fabio, ammettilo che quando mi hai visto con tutti i bagagli a terra un po ti sei preoccupato” “ma scherzi? Io quando ho visto i bagagli, tutti quegli elastici e funi ho pensato –questo non ne viene fuori- invece hai messo su due cinghie e hai risolto, hai una gran bella moto, io sul mio bmw non ci sarei riuscito” cazzo che soddisfazione, che rivincita!!!!
Domenica mattina, ore 7.30 risveglio a Vipiteno sotto la neve, io manifesto la mia preoccupazione e incito fabio a far presto, mi guarda, sorride (lui e di Santhià la neve è il suo pane) “non abbiamo nessuna fretta, ora facciamo colazione con calma, poi ci mettiamo in viaggio, il problema è da qua all’autostrada, là se proprio è sporca, aspettiamo uno spazzaneve, ci accodiamo, andremo a 50 all’ora ma facciamo strada, tu vai con i piedi giù e non toccare mai il freno davanti” eh lo so, lo sapevo anche prima che la moto mi cadesse ad Innsbruck. Intorno alle 09.00 ci mettiamo in viaggio, ormai per terra ci sono 10 cm di neve, per me è la prima volta non sono tranquillissimo ma mi pare di comportarmi egregiamente; sull’autostrada nevica ma è pulitissima, procediamo ad un passo di 100 – 110 sino a Bressanone, la neve è diventata acqua e si va al solito passo, 130 – 140 e dal cielo viene acqua, neve, ancora acqua e nuovamente neve, facciamo un tiratone unico sino a Bergamo, infatti io sono in anticipo di un giorno (il traghetto è prenotato per lunedì alle 21.00) approfitto per andare a trovare degli amici, considerato che per lunedì le previsioni mettono acqua.
Lunedì 02/02 sveglia alle 5,30 indipendente dalla mia volontà, purtroppo non ho più sonno, mi affaccio furi e . . . . . è tutto bianco e nevica, ma la neve non è come a Vipiteno, è più spessa, più solida; accendo la tv, previsioni del tempo: mettono acqua, sarà allora solo una questione di tempo, tra un po inizierà a piovere e scoglierà tutto. Ore 9.30 non ha ancora smesso di nevicare, decido di mettermi in viaggio, l’autostrada è a soli 7 km, spero di trovare la stessa situazione che a Vipiteno.
I 7 km che mi separano dall’autostrada vengono percorsi in 45 minuti esatti, sembra di essere sul sapone, in quel miscuglio di neve e fango spostato da dx a sx e viceversa dalle auto e dai camion, soste e ripartenze appresso al traffico, non è proprio il caso di mettersi a fare le virgolette tra le auto. Finalmente l’autostrada, 30 – 50 metri, non mi sento tranquillo, allungo un piede verso l’asfalto, cazzo quanto è scivoloso!!! Procedo a 50 all’ora, sono in balia dei camion che mi sorpassano e mi scaricano addosso tutta la merda che riescono a sollevare dalla strada; procedo in questo modo sino a Brescia, dove la neve diminuisce e anche quella che viene dal cielo è diventata acqua, riprendo la mia andatura normale e procedo verso Piacenza, infatti ho deciso di fare l’autostrada della Cisa, con la speranza che spostandomi verso sud la neve sia sempre meno, subito dopo Piacenza ritrovo la situazione di Bergamo, vado pianissimo e vicino a Parma sono quasi tentato dal fermarmi perché davvero, mi servivano dei pattini più che delle ruote, mi faccio coraggio e proseguo, intanto i cartelli luminosi in autostrada recitano “obbligo di catene sino a Pontremoli” dove cazzo è pontremoli? Quanto mi manca? Mi fermo nell’area di servizio di Medesano, ho un freddo cane, sempre e solo alle mani e ai piedi, si accosta una volante della polizia “ma lei dove crede di andare? Lassù sta nevicando parecchio” “ ho un traghetto dall’altra parte che mi aspetta, e non intendo perderlo” mi guarda perplesso poi esclama: “ io non la fermo ma sappia che rischia parecchio” cazzo è proprio l’incoraggiamento che mi serviva!!!! A questo punto non vedo l’ora di affrontare il passo, mi rimetto in viaggio, l’asfalto è sempre viscido, ci sono belle curve che in condizioni normali mi sarei gustato alla grande, invece speravo di trovarne il meno possibile e la strada comincia a salire, l’andatura si riporta intorno ai 50 all’ora e…… ma in questa autostrada passano solo camion?? Uno appresso all’altro, uno ti sorpassa e dallo specchietto ne vedi sopraggiungere un altro, e un altro ancora…… Dopo l’uscita di Borgotaro (ricordo che passai da li nel 2004 nel mese di marzo, in macchina con un amico e mio figlio, ci fermammo a giocare con la neve come dei ragazzini) l’andatura è ormai a 20 all’ora e i piedi sempre pronti a tenere la moto in equilibrio, ma . . . . . . . la fortuna non mi ha abbandonato: una lunga fila di camion che procedono a passo d’uomo, mi accodo, nessuno mi sorpassa più e si procede in questo modo sino allo scollinamento, il tunnel e . . . ti affacci in un altro mondo: acqua che sembrava buttata giù coi secchi, ma ne per strada e nemmeno nei monti un fiocco di neve, non ho mai benedetto l’acqua dal cielo come in questa circostanza, felicissimo mi fermo e controllo l’orologio: Bergamo Pontremoli km 224 ore impiegate 5.30. il resto è una gran doccia “naturale” sino a Livorno.

Quando una Guzzi ti entra nella vita …?

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di Albano Salvatore (CAV)

Sono un MOTOAMATORE, almeno così amo definirmi per la mia passione per le due ruote intesa come stile di vita, come pensiero di libertà che solo una moto può regalare, e mai avrei pensato di “provare” a scrivere di moto…comunque sono in ballo e lo faccio volentieri proprio perché alla fine é di questo che voglio rendervi partecipi, del PERCHE’ scrivo…
La mia vita motociclistica inizia a quattordici anni, come tutti, credo, e continua con la prima patente, o meglio dire con la patente A, l’agognata patente per i sedicenni che si avvicinavano alla prima cilindrata targata, per poi arrivare a 18 anni e poter guidare (le leggi dell’epoca lo permettevano: patente A+18 anni= maximoto…senza accesso graduale…) così una Jappa che un mio zio mi regalò, una Yamaha TT 350: decisi che non me ne poteva fregare niente di una moto del genere e così, con i primi risparmi post-diploma-e-lavori-estivi, optai per una più tranquilla Jappa, una versatilissima Honda XL 600 Paris-Dakar…bella moto, affidabile, ma in me scemava sempre più la passione per le due ruote, sì, avete capito bene, SCEMAVA…
L’ho tenuta 4 anni, con reciproca stima, ma mi mancava qualcosa, che a dir la verità non trovai neanche nella successiva Teutonica di seconda mano con ben 47.000 km che mi comprai dopo: trattavasi di BMW K100 RT dell’ 87, che presa nel 98 facevano ben 11 anni di gloriosa carriera fatti con persone che sicuramente l’hanno amata e trattata come io volevo e voglio che vengano trattate le due ruote…Con questa mi sono approcciato ai primi moto-raduni e viaggi in compagnia fino alla decisione cha la moto doveva essere solo mia e le emozioni che doveva trasmettere dovevano appartenere solo al sottoscritto, quindi i primi viaggi in solitario per l’Italia con qualche puntata verso Nord (Europa); ma mi mancava ancora qualcosa…
Arrivano i primi problemi legati al lavoro e (non lo nego) alle finanze, morale dovetti vendere a malincuore la Tedescona che molto mi aveva dato…ma decisi che 1 anno e mezzo senza due ruote erano troppi…Spinto da un amico Nippoamante andai in concessionario dell’ala dorata per acquistare (ahimé) un’altra Jappa: vi giuro che era un acquisto del quale ancora oggi mi chiedo il perché, non tanto per la moto che già conoscevo e che sicuramente mi avrebbe dato soddisfazioni e affidabilità, ma quanto per la mia inguaribile predisposizione alla ricerca della moto che mi faceva battere il cuore…La onesta e tuttofare Transalp mi ha portato in molti posti belli, ha portato in giro donne di turno (ovviamente sempre come passeggere…) ma la vendetti, proprio perché una di queste donne di turno, che poi diventò quella del turno fisso, mi fece capire che un mutuo per comprare casa non poteva convivere con due auto ed una moto….sigh !!!
Siamo così arrivati all’anno 2007, anno della svolta lavorativa dove fortunatamente mi gira bene e la prima cosa che faccio cos’è…? NO, non l’acquisto di una moto, non volevo fare un altro “sbaglio”, ma mi lancio su internet e per puro caso entro nel sito MOTOGUZZI…….un colpo di fulmine, eppure avevo continui contatti con l’AQUILA DI MANDELLO, ma chissà perché l’ho sempre snobbata…IL PROTETTORE DELLA GUZZI MI HA PUNITO E MI HA FATTO INNAMORARE FOLLEMENTE DEL MITICO BICILINDRICO A V….
Ora possiedo una bellissima (perché le Guzzi sono tutte belle…) BREVA 750, contentissimo della scelta fatta e sempre più innamorato di questa meravigliosa storia della nostra Italia.
E così ho iniziato a scoprire i vari siti, forum, e tutto quello che ruota attorno alla Passione Guzzista e mi rendo conto solo ora di quello che ho perso negli anni, anche se ho acquisito la mia attuale esperienza…E poi c’è l’aspetto stiloso che non guasta mai: avete presente quando si arriva in un luogo di tendenza e parcheggi la Moto a vicino ad altre molto più costose della tua…? Ebbene, vi è mai capitato che c’è sempre qualcuno che ha occhi solo per i tuoi cilindri che sporgono…? E quando altri timorosamente si avvicinano per guardarla…? Beh, ragazzi solo chi ha una Guzzi può saperlo e questo io l’ho scoperto da due anni a questa parte…forse, inconsapevolmente grazie alla mia attuale compagna che mi aveva aperto gli occhi sulla vita di coppia…inconsciamente però i miei occhi si sono aperti anche verso un patrimonio che ogni motociclista che si rispetti non può ignorare…
Un ultimo aneddoto: mi trovo in un bar della Riviera Romagnola per un caffè con amici e arrivano vari Harleysti, molto simpatici devo dire, uno di loro inizia a puntare la mia SGUZZINA (così l’ho battezzata…) pensavo che si fermasse al fatto puramente estetico invece quando stavo per andare via capendo che ero il proprietario, con impeto quasi minaccioso si avvicina e con un sorriso quasi da ebete mi dice: “COMPLIMENTI, LA GUZZI NON TRADISCE MAI, EH? DAI, ADESSO FAMMI SENTIRE COME CANTA…”
CHE SODDISFAZIONE RAGAZZI …

L’ultima California

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di Giancarlo Rosini “greybike”

Tutto cominciò un afoso giorno di Settembre del 2016. Andrea Corradi era intento al solito cazzeggio su un forum di un sito internet.
Ormai erano tanti anni che frequentava quel sito di pazzoidi innamorati delle moto costruite a Mandello del Lario. Dopo gli anni bui della gestione Piaggio le cose stavano andando bene per la Guzzi, al secondo anno in Superbike aveva già centrato tre vittorie e le vendite andavano ancora meglio. Sbirciando fra i vari argomenti del forum si imbattè su di una discussione su quale fosse il modello più rappresentativo della casa Lariana, a quanto pareva era la California a strappare i maggiori consensi, specialmente quelle più vecchie, non gli ultimi 1400 ottovalvole considerati forse un po’ troppo snob.
Andrea fu soddisfatto, anche lui ne aveva una, 1100 Classic bianca del 2008 che lo aspettava giù nel parcheggio. Prima di spegnere il computer dette un’occhiata all’ultimo messaggio, un certo Gandalf scriveva “La California è la miglior moto prodotta da Guzzi …. anzi dirò una cosa: Il giorno che al mondo non ci sarà più nessuna California allora il mondo non avrà più ragione di esistere” col solito contorno di faccine sghignazzanti.
Un brivido percorse la schiena di Andrea, “minkia che bella profezia” disse. Ma ora si erano già fatte le 17,30 era ora di andare, spense il computer salutò i colleghi e giù verso il parcheggio dove lo aspettava la sua “Dama Bianca”. Sulla strada verso casa pensò ancora un attimo alle parole di Gandalf, un altro brivido lungo la schiena, poi una serie di curve prese il soppravvento nei suoi pensieri.
Un colpo di gas cancellò quel ricordo.

Milano 12 aprile 2318

Arnamolder si era alzato presto quella mattina, era domenica e non doveva andare al lavoro. Indugiò un po’ sulla colazione poi accese l’olovideo per vedere il notiziario, subito le immagini presero forma al centro della stanza, lo speaker assonnato recitava le solite notizie: “Papa Silvio IV in visita in Nuova Britannia”, “arrestato politico corrotto”, “incidente fra due autoplani” e via discorrendo.

Eh già Arnamolder odiava quei “cosi” volanti che, da pìù di un secolo, avevano in pratica sostituito la vecchie automobili. Certo ne possedeva uno per motivi di mobilità, ma lui amava sempre gli antichi motori a scoppio, l’odore della benzina e il rumore degli scarichi, non il freddo ronzare dei motori a energia solare. E soprattutto amava le “motociclette”, quel nome dal sapore antico, erano quasi due secoli che non se ne producevano più, erano state vietate da tutti i governi mondiali e quindi nel giro di un decennio i produttori rimasti avevano chiuso i battenti, chi una moto ce l’aveva poteva ancora usarla, poi basta.

Ad Arnamolder sarebbe piaciuto vivere agli inizi del terzo millennio quando frotte di “motociclette” scorrazzavano libere per le strade, quando meccanici unti e sudati lavoravano attorno ai vecchi motori per migliorarne le prestazioni, quando si poteva ancora “dajergass”. Gli piaceva quella parola “dajergass” l’aveva sentita da piccolo da suo nonno.

Quante cose gli aveva insegnato suo nonno, si chiamava Tatuato, solo Tatuato, come lui si chiamava solo Arnamolder, da tanto tempo per comodità non si usavano più i vecchi “nome e cognome”.

Lui era orgoglioso del suo, sapeva che veniva dai tempi antichi, quando Globalnet si chiamava ancora internet, insomma i tempi delle “motociclette”.

Il nonno di suo nonno aveva trovato dei vecchi aggeggi che chiamavano computer, era riuscito a leggere il contenuto delle memorie e aveva trovato tracce di un sito in cui si parlava di “motociclette” che pare avessero addirittura un’anima.

Gli utenti dell’epoca si presentavano con un nome di fantasia, l’antico nickname,ecco forse perché col tempo si era pensato di abolire “nome e cognome” e sostituirlo con un solo nome da usare sempre, sia su Globalnet sia nella vita reale.

Nella sua stirpe erano stati tutti appassionati delle vecchie “motociclette”, quelle con l’anima, l’antico marchio MotoGuzzi; da un po’ aveva capito da dove veniva i suo nome e anche quello dei suoi parenti e antenati.

Il suo albero genealogico era pieno di Macio, Marsa, Fange, Olimpino, Ranabout, Samside, Bombos detto “lucchetto” (questa non l’aveva mai capita), Drogo, Le zie Piratessa, Pandora e Verdenevada e centinaia di altri coloriti nomignoli.

Ah!! il vecchio sito Animaguzzista, era riuscito a salvare molti scampoli di discussioni di allora, tarature di carburatori e corpi farfallati (lui li chiamava “sfarfallati” gli sembrava più bello), sospensioni, gomme, cardani, raduni, bevute, rincoboys (anche questa non l’aveva capita bene), pensò a quella volta che girò mezza italia per cercare il bar di Tulla, boh chissa se c’era mai stato veramente.

Pervaso da atavici ricordi si rese conto che aveva voglia di andare giù, nel garage sotterraneo.

Scese di corsa le scale.

Accese la luce.

Lei era lì, sotto al telo bianco, come sempre.

Con calma accese il riproduttore multimediale, e selezionò alcuni brani. Roba di tre secoli prima, quello che un tempo chiamavano rock, ma sempre roba entusiasmante.

Neil Young attaccò le prime note di ”Cowgirl in the sand”, e Arnamolder si avvicinò con rispetto alla cosa sotto al telo bianco.

Tolse il telo, e gli apparve la vecchia signora.

Moto Guzzi California Classic, colore indefinito che una volta forse era stato bianco, aveva in casa un consunto foglio emesso da una fantomatica “motorizzazione civile” che diceva che quella “motocicletta” era stata immatricolata il 6 giugno dell’anno 2008 ed era appartenuta ad un certo Andrea Corradi.

Lui sapeva solo che la moto era sempre appartenuta alla sua famiglia da svariate generazioni.

Aveva anche un nome, si!! una volta davano anche un nome alle cose, su di una targhetta arrugginita attaccata alla fiancatina destra stava scritto “Dama Bianca” e anche suo nonno e suo padre l’avevano sempre chiamata così.

Per curiosità si collegò col suo palmare a Globalnet, c’era un sito che raccoglieva gli ultimi “motociclanti” rimasti sulla terra, controllò gli iscritti, erano ancora in 1064.

“Mica male” disse ad alta voce, poi diede una rapida occhiata ai modelli e marchi presenti.

Harley, Guzzi, Ducati, Bmw, svariate Triumph, tre giapponesi e qualche special hand-made degli anni seguiti alla chiusura di tutte le fabbriche di “motociclette” .

Controllò meglio i modelli, di California restava solo la sua, in un certo senso si sentì fortunato, però un brivido gli percorse la schiena.

Giusto un paio di giorni prima aveva ritrovato un vecchio messaggio del 2016 di un certo Gandalf che diceva “La California è la miglior moto prodotta da Guzzi…. anzi dirò una cosa: Il giorno che al mondo non ci sarà più nessuna California allora il mondo non avrà più ragione di esistere”

Poi ci rise sopra, “ammazza quanto eri catastrofico caro Gandalf”.

Avvolto dalle note di “Thick as a brick” tirò fuori la chiave e la infilò nell’apposito blocchetto di Dama Bianca.

Aveva una gran voglia di andare a “fare un giro”.

Diciamo subito che andare a “fare un giro” nel 2318 non era così facile come trecento anni prima. La benzina era carissima c’erano solo un paio di raffinerie nel pianeta che la producevano, giusto per accontentare i folli amanti del motore a scoppio.

Oramai tutto funzionava a energia solare; “gratis e pulita” dicevano i politici, cosa volere di più, insomma la benza costava sui 45 eurodollari al litro, roba da limitare al massimo le uscite in “motocicletta” , per non parlare di eventuali parti di ricambio che andavano di volta in volta ricostruite in esemplare unico.

I pneumatici poi, li produceva solo un fabbricante e li vendeva a peso d’oro “peggio dei dentisti” pensava Arnamolder (chissà perché, ma ce l’aveva a morte coi dentisti).

Girò la chiave e premette il pulsante di “START”

Un sommesso borbottio copri il flauto di Ian Anderson.

Anche stavolta l’ammasso rugginoso, che un tempo vide altri splendori, aveva preso vita.

Casco, giubbotto, guanti

Il motore ogni tanto dava qualche sussulto per poi riprendere il suo caratteristico minimo zoppicante.

In sella, dentro la prima con un clock fragoroso e via. Si era svenato ma almeno il serbatoio era pieno, aveva deciso di uscire dalla afosa città per andare verso il lago, magari in quel quartiere periferico di Lecco dove un tempo sorgeva il paese di Mandello del Lario. Pare che nel 2210 Ube, il sindaco di Mandello, lottò strenuamente per non permettere l’annessione del suo paese alla città di Lecco, ma tutto fu vano.

Si era lasciato dietro le spalle la città già da un pezzo e stava viaggiando a bassa andatura godendosi quel poco di verde che ancora rimaneva fuori dalle grandi metropoli.

La bassa andatura era dovuta a due motivi piuttosto seri.

Dama Bianca aveva più di trecento anni, non sapeva quanti e quali pezzi del suo motore fossero stati sostituiti e rifatti, quindi non era il caso di sollecitare oltre il lecito la sua vetusta meccanica.
L’asfalto non era proprio quel che si dice “un biliardo”. Da quando i mezzi di trasporto più diffusi erano gli “aggeggi volanti” le amministrazioni non avevano tanto interesse a mantenere curate le strade.
In altri tempi l’avrebbero definito “fermone”, rise fra sé nel casco al pensiero di questa strana parola.

E poi fermone o no, aveva le gomme quasi pietrificate, non era il caso di rischiare anche qualche osso.

Poi, quella curva.

Quella maledetta ghiaia.

Fu un attimo, Arnamolder si senti sbalzare dalla sella verso il prato che costeggiava la strada mentre Dama Bianca prendeva tuttaltra direzione.

All’impatto con la strada il vecchio serbatoio non resistette, squarciandosi.

Poi furono scintille, provocate dal metallo che strisciava sul ruvido asfalto.

Poi le fiamme avvolsero la povera California, che con cigolii sinistri cominciò a fondersi in un unico ammasso di ferro fuso.

Si rialzò. Niente di rotto per fortuna.

Quanto tempo era rimasto svenuto ?

Pensò subito a Dama Bianca, quello che rimaneva di lei stava là a dieci metri, un’ammasso fumante.

Quando non ebbe più voce per imprecare la malasorte prese il palmare per chiamare l’aerotaxi. Voleva tornare subito a casa, non poteva più stare lì, la vista di Dama Bianca morente lo faceva stare male.

Nel tragitto di ritorno verso casa pensò alla sua California, “l’ultima California”.

Ancora sentì quel brivido lungo la schiena. “La profezia di Gandalf” .

Idiozie, pensò. Figuriamoci se devo dare retta a uno stupido messaggio di trecento anni fa.

Giunto a casa si preparò qualcosa da bere e accese l’olovideo per distrarsi un po’.

Apparve subito l’immagine di un giornalista, sembrava spaventato, accanto a lui un’astronomo che aveva già visto in altre trasmissioni, sembrava letteralmente terrorizzato.

Parlavano dell’orbita terrestre, qualcosa era successo, qualcosa si era spostato, sembrava che la terra si stesse avvicinando pericolosamente verso il sole.

Poi ci fu un disturbo alla trasmissione, le immagini olografiche sparirono, incominciò a fare caldo, sempre più caldo.

Arnamolder finì il suo drink, oramai aveva capito tutto, la profezia di Gandalf era terribilmente vera.

E mentre l’aria si faceva irrespirabile guardò fuori dalla finestra e vide che le cime di alcuni alberi sotto casa sua stavano prendendo fuoco.

Puntò il dito su di un albero a caso.
Le sue ultime parole furono “mi sei simpatico, è per questo che ti brucerò per ultimo”

Ho visto una Guzzi

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immagine-racconto

Racconto di stefano qv

Oggi quassu’ è stata una giornata di merda… volevo (anzi dovevo) fare un bel giro in moto e fermarmi sui monti in una certa gelateria dove lavora una certa ragazza…
Quindi questa mattina, mi alzo bel bello e motoguzzo fino alla palestra, faccio le mie cose palestrose, e quando esco per tornare a casa noto che l’aere non promette proprio una giornata bellissima… ma nonostante questa premessa, metto in moto la Cali e arrivo fino a casa,pensando che tra un paio d’ore sarei stato bello bello seduto in quella gelateria e a perdermi negli occhi di quella poveraccia, che non ha idea di che razza di deficente le abbia messo gli occhi addosso… accarezzo questo pensiero e la giornata non mi sembra piu’ nemmeno tanto uggiosa… anzi, sono sicurissimo di aver intravisto qualche sprazzo di sole da qualche parte.

Comunque,arrivo a casa… saluto il cano,bevo il mio bibitone proteinico… mi faccio la barba,e già che ci sono mi rifaccio la doccia (sono un ragazzo pulito io) poi mi preparo… devo essere figo… massì, mettiamoci la giacca di pella vintage e il casco aperto… con il california fanno pendant!
Gia che ci sono prendo il completo antipioggia…tanto la Cali ha le valigie laterali… quindi anche se so che non lo userò, non mi darà nessun fastidio portarmelo dietro.

Ok,sono pronto… tempo di preparazione…1.45 minuti…nemmeno Amanda Lear ci mette così tanto… esco di casa… PIOVE!

Ma piove davvero… piove da sopra e anche di traverso!

Mi siedo sopra al V11 e dalla casetta di legno dove si trovano le moto guardo la pioggia… come se guardandola riuscissi a far smettere… niente da fare, il mio sguardo non è abbastanza penetrante.
Cosa fare?
Io devo andare a vederla!
Io so che lei mi aspetta!
E’ due settimane che al sabato vado a mangiare il gelato piu’ schifoso della germania solo per attaccare bottone con lei!

… ma piove veramente tanto… anche per un Minkia come me!

Decido che è ora di pranzo… potrei andare al Mac con la macchina… mangiare… e sicuramente smetterà di piovere!
E’ la soluzione ideale!
Detto fatto, mi tolgo la giacca e l’appoggio sul cali, rientro in casa,risaluto il cano (il mio cano mi vuole troppo bene) prendo le chiavi e via sotto la pioggia.
Piove piu’ forte di quello che pensavo… i tergicristalli fanno fatica a tenere pulito il vetro (queste macchine krukke, manco l’acqua dal vetro sanno togliere…), è un casino guidare,le rotaie del tram, i tedeschi che attraversano, i tedeschi che guidano… ci sono tedeschi dappertutto qui!
E c’è anche il semaforo rosso!
mi fermo e aspetto il mio turno… ma attraverso il vetro punteggiato di gocce,cosa vedo?
Una moto!
Ma chi caxxo è il cogxxxne che va in giro con quest’acqua?
Non starà mica andando in gelateria sui monti anche lui?
E che razza di moto è?

La moto in questione non è molto riconoscibile… è parecchio lontana da me,si vede solo che è rossa,ha una gigantesca carenatura che ricopre tutta la parte anteriore,ha una gigantesca borsa nera sul serbatoio e un orriderrimo tris di bauletti bianchi (bianchi! Shocked )…

Proprio matti sti krukki!

Ma non riesco a capire che moto sia!

All’incrocio ci siamo solo io e lui… io sono fermo per il semforo rosso,mentre lui parte perchè dalla sua parte è diventato verde… la moto mi passa davanti… è a circa 30 metri da me… ma non riesco comunque a capire che moto sia… piove veramente forte… sembra che ci sia la nebbia.
Intanto scatta il mio semaforo e istintivamente mi getto all’inseguimento della moto e lo riprendo al semaforo successivo.
Me lo ritrovo prorpio davanti, mi sposto un pò di lato per vedere la moto di trequarti e individuare il modello

E’ una Guzzi!

Vedo e riconosco subito i cilindri attraverso la carenatura.
Guardo meglio i particolari, il serbatoio con la scritta in stampatello, le marmitte nere e sporche con le ventoline allo scarico… e leggo la scritta sul fianchetto “850 le mans”!

Il semaforo scatta e io seguo il tipo,ci immettiamo in autostrada,e io osservo questo povero pirla che con una moto che ad andar bene avrà almeno 30 anni,bardato come un rifugiato del kosovo,che affronta la pioggia con la moto carica come un mulo… Impressionante vedere quella moto in quel contesto!

L’immagine del Vero Motociclista!

L’ho seguito per un pò,seguendo la nube d’acqua che tirava su e abbassando il finestrino per sentire il rumore dei Lafranconi… poi mi sono affiancato,ho abbassato il finestrino destro e l’ho salutato con il pollice, quello mi guarda, mi sorride e ricambia con il pollice.

Mi ha messo di buon’umore questa cosa…chissà quante volte ho visto motociclisti durante i temporali… io stesso ho preso la mia razione…ma questa Guzzi oggi mi ha proprio colpito!… un’altra moto non mi avrebbe fatto lo stesso effetto.

Che coglione che sono… ma che figata essere Guzzisti!

P.s.
Ha smesso di piovere… e io sono andato a fare il cascamorto… e sono pure stato fortunato,in un certo senso,perchè la tipa mi ha dato appuntamento per stasera… ma sono caduto dalla moto mentre tornavo a casa…niente di grave… ma ho dimenticato un polpaccio sotto alla pedalina del passeggero… e sono andato in bianco!

Traversata delle tre Americhe in moto – Santa Monica

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di Claudio Giovenzana

Da San Francisco a Santa Monica sono 600 km, diverse ore in sella con due possibilità: o la strada costiera o la direttissima.
Scegliere la strada più veloce non sempre significa stancarsi meno. Viaggiare due ore in più mantenendo i 90 km orari in mezzo a un paesaggio mozzafiato può essere meno stancante di correre 40 km più veloce su una highway per meno tempo. Hai meno vento contro e più coinvolgimento con il paesaggio circostante, l’esperienza della moto si distingue maggiormente su questo genere di percorrenze. La costa di Santa Lucia misura 80 miglia, forse 90, è fatta di curve adiacenti a pini marittimi e scogliere. L’odore della salsedine mescolato alle resine dei pini vale da solo la scelta di abbandonare la highway, mi inebrio con respiri profondi e mi immagino che se una persona mi chiedesse ora da dove provengo gli direi fieramente “Io sono l’uomo che viene dall’altro oceano”. Dall’atlantico al pacifico sono passati tanti giorni e tanti km, storie che a raccontarle si riempirebbero tranquillamente serate intere tra amici.
E sono solo all’inizio. Fantastico.
Gli ultimi giorni a San Francisco sono stati un recupero dell’ “anima pantofola” e una perdita momentanea dell'”anima del viaggiatore”, troppo tempo inchiodato al computer, troppi contatti con riviste e periodici, troppa amarezza e frequente la sensazione di non cavarne un ragno dal buco ma di essere invece preso per i fondelli. Fatte salve ovviamente alcune persone che hanno dimostrato partecipazione concreta, anche nei fatti, al mio viaggio. All’incirca il 5% di quelli contattati tramite mail e il 10% di quelli contattati tramite telefono.
Preparare la moto è stato come uscire da un sonno letargico pieno di sogni non sempre belli. Una notte ho sognato Giorgio Bettinelli, non mi ricordo il contenuto del sogno, a giudicare dall’agitazione era forse una sorta di anticipazione onirica della sua morte che mi è stata comunicata tre giorni dopo per mail. Al ricevimento della notizia le lacrime prima e poi una sorta di “effetto rimbalzo” che ha messo a tutta forza la sala macchine facendomi desiderare di nuovo la strada. L’idea che nasceva in quella vampata di desiderio e movimento interiore, dopo la triste notizia, era raccogliere il testimone da lui lasciato e iniziare a correre. O almeno continuare per un pò in una staffetta simbolica dove venderesti l’anima al demonio pur di correre il tuo maledetto pezzo, viverlo, assaporarlo e raccontarlo. E così giorni dopo alzo finalmente il culo piatto dalla sedia e inizio a cinghiare zaino e tenda sulla schiena del ferro che si desta anch’esso con il suo fare da “monocilindrico” pigro. Quando dopo pochi secondi anche l’altra metà di motore si accende non rimane che dare gas e allontanarsi.
Attraverso un banco di nebbia e pioggerella che dura tutta la costa, il paesaggio è ugualmente bello e percorrerlo è una piccola goduria. Arrivo a Santa Monica che è buio, mi fermo in un parcheggio e aspetto l’arrivo di Todd, fondatore di Guzzitech, il sito maggiorente frequentato dai Guzzisti americani. Arriva su una jeep e ci abbracciamo senza convenevoli. Sarò ospite in casa sua per qualche giorno, con lui la sua compagna e i due figli di lei, gente a posto, gente della california meno vulnerabile alla frenesia della Est coast, forse perchè temperata nel carattere dalla continua esposizione al sole, senza inverni depressivi.
I giorni sono trascorsi più rapidamente che a San Francisco, sono riuscito a indaffararmi facendo il tagliando alla moto nell’officina- garage di Todd.
Cambio degli oli, filtro olio e combustibile, registrazione valvole e la sostituzione del rubinetto della benzina con uno meccanico più affidabile. Il vecchio casco mi lasciava un punto rosso costante sulla fronte e mi faceva perdere capelli quotidianamente. Ne ho comprato un’altro, più comodo e leggero. La borsa da serbatoio che stava insieme con le spille da balia è stata anch’essa rimpiazzata con una più robusta. Invece i pantaloni antipioggia con la lampo rotta e “l’infiltrazione facile” con un paio a corpo unico più leggero e senza cerniera. Ho comprato uno scotch nero robusto e ho iniziato ad avvolgere quasi ogni parte cromata della moto facendola diventare decisamente più brutta e apparentemente danneggiata: non mi piace luccicare nel terzo mondo. Attiro abbastanza l’attenzione per una serie di motivi e non ne voglio aggiungere altri. Con Todd siamo andati a un motoraduno e infine su e giù per colline di Malibu, una volta abbiamo fatto una discesa di 5 minuti a motore spento che sembrava di condurre a vela. La moto di Todd è il medesimo modello della mia ma leggermente “riveduta”: condotti scarico valvole centralina ed estetica sono stati personalizzati con il risultato di 90 cavalli alla ruota e un look fantastico. Non c’è verso di starle dietro anche perchè Todd nella guida sportiva non conosce molti rivali. Quando aveva due anni con il suo triciclo si è buttato giù dalle scale che portavano in cantina, dopo aver rotolato sino a rovinare sul pavimento la prima cosa che gli è uscita dalla bocca è stata “Ancora!!”
Rimaneggiando un’espressione di Bettinelli io mi considero un “guzzista di lungo raggio” perciò accantono la guida sportiva e mi concentro sulla lunga gittata. Verrò lasciato solo a casa con i figli per qualche giorno, poi anche loro se ne andranno, trascorrerò da solo l’ultimo giorno approfittando dell’ultima connessione “facile” a internet per cercarmi articoli e documenti.

La mattina della partenza compro una guida e una mappa del Messico e parto per attraversare la “grande cicatrice”.

MESSICO

“Quanto costa questo orecchino?”
“10 dollari.”
“Ah ah, buona questa, guarda che non sono un “gringo””
“Ah vedo che sai come si tratta… ”
“Si un poco, perchè non facciamo in pesos ok?”
“Ok, ti faccio 60 pesos”
“No no, posso darti 20”
“50”
“40”
“No 50”
“ok va bene 50 la coppia”
“guarda che 50 è il prezzo per uno solo”
“ahh.. io pensavo per due… senti ti dò 30 per uno solo”
“no no.. senti facciamo 45 per tutti e due, ok?”
“ok”
E così da 10 dollari (120 pesos) per un orecchino pago 45 per due, un sesto del prezzo di partenza per la coppia. Questo è ciò che mi tocca fare, a volte con gran piacere e a volte meno, nei mercati dei paesi meno modernizzati. In queste realtà la strada diploma gli individui meglio che la scuola e i mercati sono le prime università. Non è solo il luogo degli affari ma anche di perle di cultura e folklore, una palestra per i modi di fare e una vetrina per vedere il bello e il brutto come il vero e il falso. Anche questo è Messico, “l’altra parte del confine”, il nemico-amico degli States. Appiccicato come un gemello monozigote condivide interessi commerciali e giochi economici dove però quelli che “stanno sopra” sono sempre gli Stati Uniti.
Arrivo la notte a Tijuana, tanto per cambiare, il cellulare non funziona e non riesco a contattare Juan, cerco a spanne di trovare il suo indirizzo chiedendo tra chioschi che vendono “birri” avvolti nell’odore delle carni e delle spezie. Trovo la strada dopo qualche tentativo alla cieca e qualche indicazione approssimativa. Conosco così Juan, gentilissimo, mi mette subito a mio agio e mi offre un letto degno di questo nome e il bagno per la doccia.
Iniziano a cambiare i connotati esterni e interni delle case: portoni arrugginiti e intonachi scrostati, cortili polverosi con materassi e cianfrusaglie accatastate. Mi sento bene, è questo il mondo che cercavo, la povertà che risalta sostanza e semplicità, le superfici rovinate e la polvere danno più smalto alle persone e agli incontri. Ci sarà tempo per contemplare la bellezza della natura ma per il momento ho solo occhi per un mondo così diverso e affascinante. Lo stesso che visitai tre anni prima per poche settimane con lo zaino in spalla. Ora ho il tempo che voglio e una moto per andare dove voglio. Inizio concretamente dal bagno di casa sua.
La luce si accende avvitando la lampadina, le cucrachas con sei zampette e due antennine seguono i loro percorsi sulle pareti, non fanno male a nessuno.
La doccia è del modello: “Scegli la tua morte”
Busta A: giri una manopola e muori ibernato da un getto assomigliante a una stalagmite che si protunde fino a intrappolarti in una prigione di ghiaccio.
Busta B: giri l’altra manopola e muori bruciato da un getto di acqua a 90 gradi.
Le manopole non sono contrassegnate altrimenti tutti sceglierebbero l’ibernazione.
Con la delicatezza e il polso di uno scassinatore di cassaforte si tratta di trovare la combinazione giusta per un flusso d’acqua di umana sopportazione. Trovare il flusso giusto dopo 2 giorni senza doccia è come per il surfista cavalcare l’onda perfetta.
Dopo un paio di ustioni superficiali ho successo e mi godo il mio flusso.
La moto è parcheggiata fuori. Juan mi assicura che non corre pericoli, i tre cani che ci fanno le feste quando entriamo appena ce ne andremo diventeranno tre Gargoyle impiantati a sorvegliare la proprietà. Se qualcuno dovesse entrare verrebbe assalito immediatamente… anche dall’ultimo dei tre che assomiglia a un salsicciotto semovente di due spanne. Una sera quando sono tornato da solo ho aperto il cancello e mi sono chiesto in cuor mio se i tre avessero già registrato il mio odore a sufficienza per considerarmi un amico. Fortunatamente mi sono venuti incontro scodinzolando.. bene.. Il più grande dei tre, sguardo triste e pelo nerissimo, si chiama “negro” che in castigliano significa semplicemente “nero”, è affettuoso e mansueto ma per difendere il suo territtorio è capace anche di saltare il cancello coronato da punte di ferro rischiando di sventrarsi.
Tijuana è pericolosa.
Mi sveglio la mattina, accendo la televisione: questa notte sono stati 10, uno in più della media. Nove secondo la classica regolazione di conti a pallettoni e uno misteriosamente trovato in scatola di montaggio in mezzo all’immondizia. Braccia, gambe e testa staccate dal tronco.
Faccio due passi nella Avenida Revolucion, un tempo talmente piena di turisti e militari americani alla ricerca di divertimento che non si poteva passare; i 4000 negozi aperti e il continuo movimento dentro e fuori il confine ne facevano una delle città più turistiche del Messico. Adesso dei 4000 negozi 2500 hanno chiuso, la gente è preoccupata e fugge, Juan pensa che la criminalità attraverso una “politica del terrore” stia tentando di spopolare quartieri interi costringendo i cittadini a vendere le proprietà a prezzi ribassati per andarsene il più in fretta possibile. Molti hanno già accettato di vendere la propria casa alla metà. Il sindaco dice che è un momento “di passaggio” ma sono parole che non lasciano eco, molta gente continua a vivere con paura, io sono in una parte della città relativamente sicura, su di me vegliano i Gargoyle e quando cammino per il centro ho un occhio supplementare che come una telecamera indaga i volti, gli angoli tra le strade e le penombre sotto le costruzioni più alte. Si riesce sempre a essere rilassati e sereni, basta un poco di prudenza. Come in molte pericolose città ci sono comportamenti che con un pò di buon senso riducono i rischi considerevolmente. Ricordo alcuni Statunitensi e le loro raccomandazioni idiote sul saltare il messico per intero come fosse un anello di fuoco da imbucare con la moto dopo la rincorsa sulla rampa per poi atterrare in Guatemala. Per ogni paese dell’america centrale e latina ho raccolto sconsigli e diffide, purtroppo per me non ho intenzione di fare il giro d’Italia. Provo paura alcune volte ma il desiderio di vedere e conoscere prevale, non sono mai stato incosciente tuttavia.
Oltre alla cosmetica per abbruttire la moto su questa non ci sono adesivi della bandiera a stelle e strisce, sarà stupido ma la reputazione dei “Gringo” (“Green” riferito alla divisa verde militare “Go” come vattene a casa) non è certo stata costruita su scambi amichevoli e cooperazione internazionale, ci sono nefandezze nella storia dei rapporti tra questi paesi che fanno accapponare la pelle, la bilancia delle colpe naturalmente non pende verso un solo Stato, c’è sempre stata una complicità di alcuni individui e governi anche nell’altro. Perciò, nonostante molti luoghi e persone degli States siano stati una bellissima esperienza, non intendo caricarmi dei loro simboli nel viaggio.
Tra parentesi: oggi ai militari statunitensi è proibito entrare in Tijuana.
Le altre raccomandazioni per aumentare la propria sicurezza riguardano dove tieni i soldi, cosa ti porti in giro e dove lo metti, come cammini e in che parti della città.
I morti sono sempre collegati alla mafia locale, i turisti rischiano solo per i soldi che i loro oggetti valgono.
Juan lavora in un chiosco dove vende fiori, o monta e smonta ogni giorno, domenica compresa e continua a lavorarci nonostante la crisi economica abbia decimato i suoi guadagni.
Siamo seduti su una cassa in plastica nel parco “Torre agua caliente”, in mezzo a fiori in vendita e ai suoi conigli che scorrazzano nel prato. Parliamo e scopro una volta ancora un uomo di grande fede. Non è la prima persona che incontro in cui la ricerca della felicità si mischia e confonde con i percorsi della fede. Juan è un profondo credente; in una città dove sangue e pallottole sono il bollettino quotidiano, la preghiera, il lavoro e la famiglia sono le sponde entro le quali continuare la propria vita. “La felicità è come un contagocce” mi dice, non arriva mai tutta insieme, arriva a gocce che cadono nel presente, non nel passato o nel futuro. “Nella mia vita la ricerca della felicità è iniziata quando ho intrapreso un cammino di fede…in carcere”.
Una notte del ’79 lo assalirono in quattro, aveva una pistola. L’ha usata.
Ha ucciso una persona e gli hanno dato 12 anni per pensarci sopra.
Conobbe una monaca in carcere, le fischiava e le urlava di andarsene, questa continuava a parlare di Gesù, non si fermava, tornava spesso e parlava ancora di Gesu’. Un giorno entrò in carcere e prima di iniziare a parlare ai detenuti scrisse una lettera e gli diede imbustata. Scoppiò un terremoto che durò alcuni minuti.
I detenuti erano terrorizzati e stavano per precipitarsi fuori dallo stanzone. Lei urlò di rimanere dove erano che non avrebbero corso alcun pericolo. Il terremoto fini e lui venne invitato ad aprire la busta. C’era scritta l’ora esatta di inizio e di fine del terremoto e la sua intensità comprovata dal notiziario successivamente trasmesso in televisione.
“Dio mi ha detto che non ci sarebbe stato pericolo per voi” Le disse mentre lo guardava con dolcezza. Dopo 4 anni dall’inizio della condanna lo rilasciarono, non ci credeva, piangeva, rideva e sospettava uno scherzo, ma sua madre era veramente fuori dal carcere ad aspettarlo, era vero! Andò a studiare teologia a Chicago, ritornò in Messico e iniziò una nuova vita.
Mi ha invitato in chiesa ma ho rifiutato cordialmente, volevo stare a scrivere e riposare. E’ stata una giornata piena, tra mercati dell’artigianato, mostre di fotografia e passeggiate nel centro. Il giorno seguente è il mio compleanno, il primo della mia vita lontano da tutto e tutti, non fa così male come sembra. Qualche telefonata e ci si riannoda affettivamente a chi sta lontano. Fa più male però passarne la metà tra uffici doganali per cercare di ottenere timbri sul passaporto e documenti di importazione. Cercando il timbro di uscita dagli states mi dirigo alla frontiera statunitense insieme a una fila di messicani, uno che stà due persone avanti a me dopo il controllo dei documenti viene appoggiato al bancone e ammanettato. Dopo un minuto tocca a me, l’agente mi perfora con lo sguardo senza sbattere le palpebre una volta soltanto, e io a cercare di farle capire che non sto cercando di entrare negli States ma solo di ottenere un cazzo di timbro per dimostrare che sono uscito prima che scada il permesso. Non hanno timbri di uscita ma solo di entrata e quindi un agente mi accompagna contro la corrente della folla indietro verso il messico. Sistemo tutto quando faccio l’importazione temporanea del veicolo, finiscono così i problemi per me e iniziano quelli della moto:
“Motoguzzi California”
“Moto que???”
“Motoguzzi”
“te pongo como marca “otro” porque no hay motogusi en la computadora”
“Esta bien” – sti ca..
E poi
“los numeros de titulo no corresponden”
“mire que no hize nada a la moto!! es original! ”
Torno a casa e ritorno con la moto per dimostrare che i numeri di telaio sono gli stessi che sul libretto. Ottengo il documento.
Vado a comprarmi una torta per festeggiare il compleanno con Juan, la sua compagna e un ragazzo di strada che vive con loro e dorme nel terrazzo.
C’è l’usanza di mordere la torta per intero, cosi immergo la faccia dentro e do inizio al festeggiamento…e buon compleanno a me! Sono 29 e sono sereno, tanta strada da fare e tanta soddisfazione di aver mollato il canovaccio che vivevo prima di partire, per tanto tempo o per poco dipende da troppi fattori per parlarne ora. Penso solo a mandar via idee troppo complicate per un compleanno e a mandar su gli zuccheri con la torta.
“Happy Birthday Asshole” mi scrivono Ken e Maureen dal Canada.

Raggiungo con la moto carica il giardino centrale a tijuana dove Juan ha il suo chiosco di fiori. Ogni giorno arriva con la sua jeep arrugginita e ne estrae tavolo, ceste di plastica, secchi e fiori, monta tutto in 10 minuti e libera i suoi conigli nel prato per farli mangiare. E’ il momento di andarsene. Ci abbracciamo e lo ringrazio sentitamente per l’ospitalità, ci auguriamo di rivederci un giorno e prima che me ne vada mi consiglia di richiamarlo non appena raggiungerò Guadalajara, metterà qualche buona parola per farmi ospitare da alcuni suoi amici.
Mi allontano da Tijuana e inizio a entrare nel deserto, la strada che percorre la bassa california è una sola, la seguo per qualche centinaia di km fino a sera, seguo le indicazioni per un hotel in riva al mare, la strada che vi porta diventa un viale delimitato da file di palmeti una per lato della carreggiata. Suona lusso sfrenato e invece in fondo vi trovo alcune roulotte e due cani che si lanciano abbaiando ai lati della moto, uno persino davanti alla ruota. Continua a correre a un metro dal pneumatico anteriore sino a costringermi a fermarmi. A piedi raggiungo la prima roulotte e guardandomi intorno vedo che l’hotel non è altro che una costruzione scheltetrica in cemento poco più alta delle fondamenta. Alle roulotte chiedo se posso fermarmi a piantare la tenda e la risposta è “dove vuoi gringo”. Puntualizzo che non sono un gringo e che ringrazio molto per l’ospitalità, mi piazzo a 30 metri dalla spiaggia, prendo la moto e vado a cercarmi un posto dove mangiare qualcosa. Scorgo una piccola roulotte al lato della strada polverosa, sterzo e parcheggio di fronte, scambio quattro chiacchiere con la signora ai fornelli e ordino un paio di tacos con gamberoni. Compro tre lattine di coca cola da regalare ai messicani che mi hanno ospitato sulla spiaggia, saluto e me ne vado. La notte inizia in mutande e finisce con il pile. Mi sveglio alle quattro di mattina con quel brivido costante a fior di pelle che ricorda il canada… non me lo aspettavo dal Messico! E’ colpa del vento che corre lungo l’oceano atlantico sino a raffreddarsi e ventilare le coste con una brezza fresca che dura tutta la notte.
Mi copro e mi faccio le ultime ore rotolandomi nel sacco a pelo facendo un kamasutra di posizioni per trovare quella perfetta senza torcicollo. La mattina me ne vado e continuo lungo la “1” attraversando diversi posti di blocco, i militari si piazzano in punti privi di asfalto e con qualche manichino e qualche cono di plastica indirizzano le machine verso un posto di vedetta. Non attiro particolarmente il loro interesse e mi lasciano andare. Nei primi posti di blocco erano in tuta mimetica .. poi con il crescere della temperatura avvicinandosi al mar di cortes li trovo gocciolanti di sudore in pantaloncini e t-shirt. Faccio benzina pochi km più avanti e scorgo un cartello che indica “prossimo rifornimento 320 km” !!! Credevo il problema rifornimenti fosse passato con il Canada ma a quanto pare ho da attraversare quasi tutto il deserto di V. prima di trovare una nuova pompa. Dovrei riuscire ad arrivare “dall’altra parte” se non esagero con la manetta, trotterello a 90 all’ora e dopo ore e ore mi fermo finalmente in una pompa di benzina. Quando mi avvicino c’è qualcosa di strano.. Ci sono le insegne ma sotto il tetto enorme in cemento armato non ci sono pompe.. ci sono bidoni arrugginiti con rifiuti bruciati. Incontro un uomo con il sombrero poco lontano e gli compro a 50 pesos 5 litri di benzina. Riprendo la marcia e mi fermo esausto a mangiare in un piccolo bar nel mezzo del nulla, ci sono tre americani dentro e uno di questi sgrana gli occhi al vedermi arrivare con una motoguzzi. Appena mi fermo mi viene incontro, “è la prima che vedo qui.. anche io ne ho una” Mi presenta i suoi due amici e mi racconta delle spiagge di Loreto, a un paio di giorni di strada, proprio dove loro hanno una casa e proprio dove io sono diretto. Mi lascia su un biglietto qualche indicazione per raggiungerla e mi promette ospitalità, perfetto! Li saluto, finisco il mio tacos e quando chiedo di pagare scopro che lo hanno fatto loro per me, mi sdebiterò tra qualche giorno, che sorpresa! Seguo le indicazioni per una spiaggia, sta facendo buio e sono solo le 6 di sera, all’imbrunire ho percorso qualche km di quello che rimane della carreggiata arsa dal sole e sparpagliata in manciate di pezzi d’asfalto. Mi stufo e 100 metri dopo l’ultimo lampione chiedo a un signore di lasciarmi piantare la tenda fuori dalla sua proprietà, detto fatto. Mi godo un tramonto meraviglioso nel mezzo del deserto, poi crollo in tenda. Mi sveglio in un paio d’ore, guardo l’orologio e sono solo le 20.30, mi metto a leggere le ultime pagine stampate sugli Stati Unti Messicani e poco altro. Dormo e mi sveglio insolitamente presto. Alle 8.30 sono già in sella, ottimo, potrò percorrere tanta strada oggi. Imbocco di nuovo la carretera distrutta per ritornare sulla “1”. Scorgo una stradina insabbiata che scorre a lato, sembra più morbida e percorribile, abbandono quella che sto percorrendo sterzando dolcemente. Il bordo della strada si infossa in cumuli di sabbia, la ruota anteriore scivola e mi ritrovo per terra. Poco male, succede a cadenza settimanale ormai, sono abbonato. Alzo il ferro e mi accorgo della sorpresa: l’aggancio di metallo della borsa laterale nell’urto con la sabbia si è spaccato, la borsa è al suolo. Con una cinghia l’assicuro al telaio e continuo sino a raggiungere il mio primo caffè dopo tre giorni, è li nel bar che mi aspetta. Con un pò di liquidi in corpo riesco a ragionare, adesso si tratta di riparare la borsa. Mi cercherò un ferramenta nella prossima città. Riparto ma mi accorgo che i guanti mancano all’appello, ritorno nella strada schifosa e la ripercorro sino a ritrovarne uno insabbiato, faccio dietrofront e trovo accartocciato anche l’altro. Adesso la mia armatura è al completo. Parto. A Guerrero Negro dopo un altro posto di blocco militare faccio staffetta tra negozietti “riparatutto” costruiti sotto lamiere arroventate dal sole. Smontando pezzi di stereo un ragazzo mi trova tre viti della dimensione giusta. Torno dal meccanico al quale avevo lasciato il ferro ma nel frattempo aveva già riparato l’aggancio con tre viti della giusta misura saltate fuori da qualche parte. “Sono 100 pesos” “naa.. facciamo 50” Mi svuoto le tasche con monetine messicane, quarti di dollaro e un paio di dollari canadesi. Ci salutiamo dopo esserci fumati una sigaretta e aver fatto due chiacchiere accovacciati all’ombra in mezzo ai rottami. Il sole è cocente, anche guidando a 100 all’ora il vento sembra solo aggravare l’equilibrio termico, anche il ferro ci mette del suo e mi scarica sulle gambe la sua brezza a 60 gradi, sono costretto a guidare con le ginocchia all’infuori, i piedi talvolta appoggiati sui paramotori talvolta al bordo estremo delle pedane. Altro posto di blocco, stavolta in mezzo a cactus impennati come antenne, militari in tenuta quasi da mare mi perlustrano con cenni del capo e chiedono da dove provengo e dove vado. “Sud America?!!…andale andale!”.
Arrivo in un piccolo paesino sulle costa del mar di cortes, mi trovo per 5 dollari un posto dove mettere la tenda e una doccia. Ho dimenticato ancora l’asciugamano!! Mi asciugo con la maglietta, questa volta la scelta cade su quella Guzzitech, regalatami una settimana fà da Todd. Dopo due giorni e mezzo senza acqua corrente mi trovo fresco come una rosellina, nel bar mi avvento su una birra e scambio quattro chiacchiere con 3 ciclisti, una coppia partita dal canada e l’ultimo dei tre, uno spagnolo, partito dall’Alaska. Mesi e mesi di viaggio senza motore sotto il sedere. Una birra in compagnia e quattro chiacchiere sul mio viaggio e sul loro. Poi è tempo di andare a riposare di nuovo.

Traversata delle tre Americhe in moto – San Francisco

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Traversata delle tre Americhe in moto - San Francisco

di Claudio Giovenzana

Sono da ore su una sedia senza ruote e senza motore. Il tempo è adatto a sedimentare pensieri e riprendere il filo con gli ultimi scritti. Giorni seduto nella sedia dello stesso bar dove mi sono guadagnato il diritto di entrare ogni mattina e chiedere “il solito”: una tazza di caffè e un pezzo di torta che se va bene mi aspetta da solo un giorno, se va male anche da un paio. La cameriera dice ad alta voce il prezzo per farsi sentire dal titolare ma poi mi fa segno con le dita qual è il “prezzo amicizia” che le devo. Altro piccolo traguardo dopo aver fatto amicizia parlando spagnolo.
Le chiacchiere diventavano spesso discorsi con la focale aperta sul mio viaggio di lungo raggio e sul suo, forse molto più avventuroso, che iniziò varcando la frontiera con gli States un anno prima. Ascolto così un’altra storia di ricerca della felicità, un altra fuga semicosciente verso un futuro migliore che porta i doni della novità e dell’opportunità ma che costa il distacco dalle proprie radici. Cominciò un lunedì quando il fratello che viveva con lei in Messico le offrì l’occasione di andare con lui negli States. Si trattava di un “biglietto di sola andata”, a piedi e senza documenti, cercando di varcare uno dei confini più controllati del mondo. Un confine chiamato “la Grande Cicatrice” sulla quale vengono uniti, con una chirurgia da dottor Frankenstein, due mondi troppo diversi. Lacrime e panico, una indecisione talmente pesante da non poterla sopportare sulle spalle, la fatidica partenza era fissata soltanto due giorni dopo. La decisione di partire le venne come un singhiozzo dopo i tanti dei giorni fatti a piangere e riflettere con la valigia mezza piena e mezza vuota che aspettava il verdetto. Iniziò la marcia nei boschi e nelle montagne, di notte, correndo e sostando per ascoltare i rumori tra i cespugli. La paura di essere scovati e i ripensamenti mentre l’ipotermia iniziava a strisciare su dai piedi e il fratello si svestiva per coprirla e le massaggiava le gambe. Arrivò a San Francisco con un dollaro, un fratello e una sola lingua, quella sbagliata. Ci volle tempo.
Adesso lavora, non può ancora permettersi un’assistenza sanitaria ma può permettersi di sorridere e di avere nuovi amici intorno. Io sono uno di questi, l’ultimo arrivato. Mi dà il numero di suo padre e mi promette che lui mi ospiterà a Tijuana quando varcherò la frontiera messicana. Tijuana, in una famosa canzone, fà rima con “alcooldrogasessoemarijuana” e probabilmente anche con tutto il corollario di malavita e povertà che cinge il suo grande centro. Ora che ho la promessa di un tetto e un luogo dove parcheggiare la moto posso pensare di adottarla come meta futura, almeno per un pò. Questa città è la rampa di lancio per 10.000 messicani che ogni anno si preparano a lanciarsi oltre la frontiera con gli States.

Ma torniamo a San Francisco, alle strade pazze dove passeggiamo con la macchina fotografica nascosta cercando di sfuggire agli sguardi di giocolieri, mercanti e artisti. Allegria e festa intorno al porto, marmaglia di gente che serpeggia sullo “shore” vicino all’oceano e vicino ai gabbiani che si fanno avvicinare sino alla distanza di un braccio prima di scappare. Ci troviamo un posto al chiuso, un tazza di caffè e due sedie imbottite, il tempo di raccontarci un pò ancora e poi via di nuovo tra la folla cercando di avvistare le chiatte sulle quali le foche si sdraiano a prendere il sole. Torniamo con il pullman su fin sopra alle colline, lontano dalla “downtown”, diventa buio. Ogni pullman di San Francisco mostra chiaramente il mix di culture e razze che ha reso famosa la città: afro, chino, italo, latino sono solo alcuni strati etnici che animano i quartieri. Seduti sulla panca sentiamo urlare 5 metri dietro di noi: due stanno litigando, vengono alle mani, la gente è paralizzata, il pullman si ferma il mio sguardo cade sulla ringhiera che chiude il pilota nella sua piccola cabina. Si apre di colpo come fosse la mezza porta di un Saloon dei film western e ne sbuca fuori una donnona di colore di 100 Kg, si piazza in mezzo al corridoio passeggeri e con una voce tipo Aretha Franklin urla: “c’è qualche cazzo di problema li in fondo ah? Portate il vostro culo fuori da qui che chiamo la polizia”
Adesso dopo averla vista sono terrorizzato anche io pur essendo dalla parte dei “buoni”. I due si defilano immediatamente e magari diventeranno anche amici accomunati dall’esperienza con la temibile autista. La donnona riprende il suo sedile, scuote la testa e dice a bassa voce, quindi che possiamo sentirla solo fino a metà pullman, “fanculo”.

Arriviamo e la mia amica mi invita a seguirla in un locale “particolare”, perchè no… Appena entrati vengo abbracciato da un signore con uno strano accento portoghese che mi grida in spagnolo “Dio ti ama” “..ah” “Dio ti benedice” “ah..che devo fare?” “Entra e canta”. Sono approdato a una comunità cristiana apostolica di portoghesi; la gente canta con le mani alzate, io rimango a custodire il mio angolo semipartecipe ma ad ogni modo incuriosito, in questo luogo non ci sono bisbigli e genuflessioni ma chitarra acustica e batteria, persone in piedi che dondolano nella musica con gli occhi chiusi. Arriva il momento della predica e mi trovo la mia amica a tradurmi dal portoghese in spagnolo nell’orecchio sinistro, nel destro c’è la vicina di sedia che aggiunge in inglese alcuni dettagli per farmi capire il libretto che tento di decifrare. Dopo 45 minuti sono esausto, ho perso la mia lingua madre e chiacchierando in strada mescolo spagnolo e inglese come fossero un nuovo Esperanto. Conosco così il Ministro di questa chiesa apostolica, il secondo dall’inizio del viaggio, questo non sembra fumarsi marijuana come l’altro ma è anch’egli gentilissimo, amichevole e accogliente. Mi racconta del Brasile, della strada che dovrei percorrere per attraversare centinaia di km di foresta amazzonica.. poi mi da del pazzo con una pacca sulla spalla e infine mi benedice e invita a visitare la sua terra.

Il giorno dopo mi dirigo alla comunità “figli di Italia” giusto per salutare qualche connazionale, suono e arriva una giapponese che mi reindirizza “all’associazione italiana” di via russia. Ci vado, entro e chiedo “C’è qualcuno che parla italiano?” “No”.
Non importa, parlo con il cuoco in inglese, mi racconta la storia della loro associazione, di italiano ci sono i piatti di pasta e le memorie dei loro nonni e bisnonni arrivati in America ad inizio secolo. Ma l’idioma si è perso nel tempo, qualche parola è resistita alle censure dei loro padri che li rimproveravano quando sentivano che tra di loro “non si sforzavano di parlare la lingua del luogo”.
Sulla parete ci sono i quadri con i nomi di tutti i membri dell’Associazione, sono pittoreschi perchè associano nomi americani a cognomi italiani, sembra di leggere i titoli di coda di un “mafia movie”. Dal cuoco passo a parlare con Marco e da Marco alla sua intera tavolata dove vengo accolto da brindisi con calici di vino, bene. In un momento di silenzio Marco prende la parola e dice “Non abbiamo abbastanza soldi per offrirti da mangiare perchè li abbiamo investiti in stock dell’Alitalia”. Scoppio a ridere con tutti i commensali. E’ stata una piacevole, finta, re-impatriata all’italiana, chiacchiere, sorsi di vino e racconti tra le nostre due nazioni amiche. E’ il mio turno di parola, inizio ripetendo quasi a memoria i primi 10.000 km di strada, il Canada e le frontiere, i miei viaggi in Centro e Sud America come “backpackers” e ora la nuova attraversata da confine a confine su gomma, con il mio “ferro”..ecc..ecc. Poi entriamo nello specifico, recupero un dettaglio non trascurabile: “la felicità”. Spiego il progetto del viaggio e l’intento di raccogliere storie che possano disvelare le forme culturali o soggettive di questa strana parola, felicità, che tutto e niente può indicare ma che spesso è molto più presente nei copioni di vita delle persone di quanto non lo sia in quelli di Hollywood. Cosi il viaggio da frontiera a frontiera diventa anche un viaggio da storia a storia, da “history a history” ma anche da “story a story”.
“Sounds good” dice uno di loro e dopo poco mi passa per telefono una giornalista americana di San Mateo che mi intervista per 10 minuti. Finita intervista e pasta lascio l’associazione con la pancia piena promettendo a tutti che sarei passato a salutare prima di lasciare la città. Torno dal pastore della chiesa apostolica a salutare anche lui, ma non ho scampo, un attimo dopo essere entrato inizio ad attaccare bottone prima con i suoi amici e poi privatamente con lui, seduti come commilitoni sui gradini di quello che costituisce il loro spartano altare di fronte a un centinaio di sedie vuote.
Mi da il suo numero di telefono, la mail e inizia a disegnarmi su un volantino della sua associazione una mappa geografica del Brasile, mi spiega dove passare via terra e dove no, come comportarsi con un anaconda e come non sottovalutare un piranha lungo anche solo 5 cm. La “carretera” dal Venezuela infatti entra nella foresta amazzonica per mille km prima di incontrare una strada asfaltata percorribile. Tengo a mente tutto e quello che la mente non tiene viene appuntato sul foglietto patinato che inizia a riempirsi di sagome dei paesi sudamericani.
Non so grazie a quale calamità naturale o psicologica ma ogni posto che vado è una religione che trovo, cosi è stato a Cuba quando mi trovai “scelto” da un Santero per una cerimonia in mezzo a un cerchio di 30 persone in una periferia di Santiago, così è stato in Africa quando sono stato ospitato da due donne musulmane e ancora a Thunderbay, in Canada, nella casa del Ministro che cercava di dimostrarmi come un versetto della Genesi contenesse un invito al consumo di marijuana.
Be, parlando di felicità il pastore mi consegna gli indizi per una bella storia.
Ho solo un nome parziale e con questo inizio le mie ricerche su internet, dopo aver sfogliato pagine finalmente trovo quanto cercavo:

Traversata delle tre Americhe in moto - San Francisco 1

La storia del Team Hoyt.
Dick Hoyt si accorse presto che suo figlio nascituro aveva qualcosa che non andava, i medici diagnosticarono un problema cerebrale dovuto a una carenza di ossigeno; il destino per la medicina era segnato e alquanto negativo. Il padre però non si rassegnò a lasciarlo in un istituto, lo prese con sè e inizio a costruirgli un interfaccia per comunicare attraverso un computer con i movimenti della testa. Dopo anni le prime parole digitali di Rick, dopo aver visto una partita di hockey, furono “Go!!”. Dick prese questo come un segno della predilezione del figlio per lo sport e iniziò a portarlo con sè nelle sue sessioni di jogging spingendolo sulla carrozzina. L’allenamento e la passione crebbero, Rick attraverso il computer diceva che “anche se sono disabile correre con mio padre mi fa sentire vivo”, iniziarono le prime gare, le prime lunghe distanze. Il padre spingeva la carrozzina del figlio per miglia e miglia, lo portava su una bicicletta speciale per partecipare alle gare di Triathlon e lo trainava in un gommone legato alle spalle quando nuotava. Nel 1992 percorsero insieme 3.735 miglia tra bici e corsa lungo gli Stati Uniti per 45 giorni, ad oggi hanno partecipato a 229 Triathlon e 66 maratone. Quando chiesero a Rick cosa avrebbe voluto regalare a suo padre rispose “vorrei far sedere mio papa sulla sedia e spingerlo almeno una volta”.
Archivio mentalmente questa storia insieme a quella di Terry Fox, Ken, Maureen e Sue che vi ho raccontato nei post precedenti. Interessanti le cose che le persone fanno per cercare la felicità vero?

Traversata delle tre Americhe in moto – Toronto

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Traversata delle tre Americhe in moto - toronto

di Claudio Giovenzana

Vi introduco a questo particolare diario di viaggio, scritto tra strade motel e accampamenti in tenda e parchi naturali. Nonostante la difficoltà di tenere un diario aggiornato in difficili condizioni di clima e confort scrivo con il sapore fresco delle esperienze appena fatte e sentendo ancora il profumo dell’avventura che sto per raccontarvi. Nove mesi orsono decisi di attraversare in solitaria il continente americano dal Canada sino all’Argentina, il primo autentico viaggio che feci fu convincersi a partire sopportando per sette mesi l’idea che avrei abbandonato a tempo indefinito le mie consuetudini e il mio lavoro. Il secondo viaggio fu iniziare a comprendere i meandri burocratici da percorrere per ottenere spedizione della moto e documentazione necessaria per attraversare tutti i paesi. Il terzo viaggio, di cui vi parlerò in questa sede, ha preso forma poco più di un mese fa quando dopo aver sdoganato la moto a Newark negli Stati Uniti ho iniziato a salire verso il Canada dando inizio alla traversata in solitaria del secondo paese più grande del mondo: dieci milioni di chilometri quadrati, 10 province, 6 fusi orari.
Sono entrato in Canada il 17 agosto alle cascate del Niagara, pensavo di percorrere solo poche centinaia di chilometri, preoccupato dai costi elevati rispetto alle mie mete future e diffidente rispetto al clima decisamente più ostico, pensavo sarei presto rientrato negli Stati Uniti cercando la Route 66 alla volta della costa occidentale. Non potevo immaginare che vi sarei rimasto un mese, un mese intero di strada, boschi, cittadine e incontri, un mese alla ricerca di leggende e di storie che raccontassero quanto stavo osservando folgorato dalla bellezza che mi circondava. Ancora non sapevo che stavo per esaurire i soldi sulla carta di credito, ne che mi sarei fermato a chiedere ospitalità e lavoro in una fattoria, ne che sarei finito nelle case delle persone più gentili e accoglienti, tantomeno che avrei attraversato uno dei parchi più belli del Nordamerica: il Jasper Park, guadagnato dopo aver percorso centinaia di km sotto l’acqua finendo una volta bloccato in tenda quasi un giorno intero sotto tuoni e lampi e un’altra volta a riparare la moto con qualche grado sotto zero.
Correvo con il polpastrello sulle mappe, seduto nella mia piccola tenda, cercando di indovinare e anticipare le strade che avrei percorso e le città che avrei visitato, propendevo per un “mordi e fuggi” dove l’assaggio del Canada sarebbe rimasto relativo alla parte sud dell’Ontario e la fuga sarebbe stata mille chilometri dopo al più tardi. Mi trovavo in Ontario all’inizio, pensavo a quella provincia come fosse una piccola variazione sul tema del mio viaggio Americano, una sorta di “escursione nei boschi”. Eppure presto avrei appreso la reale estensione della sua superficie, ben tre volte più estesa di quella dell’Italia; unitamente alle altre nove regioni iniziava a formare le prime percezioni del Canada come qualcosa di mastodontico. Dalla carta delle mappe all’asfalto del manto stradale molte cose cambiano, una di queste è stata la decisione di attraversare tutto tutto il paese, o quasi, piuttosto che farmi solo qualche giornata. Successe quando mi resi conto che i soldi richiesti alla banca per caricare la carta di credito non arrivavano, ero a Warwick poco dopo le Niagara Falls indeciso se varcare il confine e rientrare ancora negli States, decisamente più economici. Eppure fuggire nonostante la mancanza di denaro non mi sembrava la soluzione più confacente alla mia curiosità, chiesi cosi ospitalità in una fattoria offrendo il mio lavoro in cambio e incontrando la meravigliosa accoglienza di cui sono capaci i Canuck, questo mi convinse a vivere il Canada più a lungo decidendo di attraversarlo quasi per intero sino alla costa occidentale. Eppure culturalmente non riuscivo a inquadrare ne il paese ne tantomeno i canadesi, c’era una sorta di schermo percettivo attorno al Canada che rifletteva l’immagine degli Stati Uniti impedendomi di comprendere veramente quali fossero le sue origini, la sua idiosincrasia e i suoi tratti peculiari.”Canada come natura”, questo era il sillogismo principale e poco mi aveva aiutato la televisione, più spesso occupata a puntare le cineprese sul “Made in Usa” che a parlare di altre realtà.
Parlando con i canadesi mi sono reso conto che in effetti non sentono di possedere un’immagine identitaria cosi forte e netta come gli Stati Uniti che sotto la bandiera stelle e strisce raccolgono le popolazioni più eterogenee uniformandole molto più di quanto non accada altrove. Il vero ritratto di Canadese, anche detto simpaticamente “Canuk” lo ho incontrato nell’orgoglio per la natura e nella propria buona reputazione su scala globale oltre che nell’accoglienza e nell’operosità dei mestieri. Il “melting pot” canadese, ovvero la miscela di culture razze e provenienze, non sigilla in un protocollo ciò che è Canadese per distinguerlo da ciò che non lo è. Ho appreso che i Canadesi sono orgogliosi di esserlo all’estero ma nella loro terra si percepiscono più facilmente nella loro distinte provenienze. Mi è capitato così di conoscere canadesi di discendenze croate, italiane, scozzesi, ucraine e sudamericane, tutti fieri di abitare una unica terra dalla natura rigogliosa e incontaminata ma anche di possedere al contempo la storia delle loro origini altrove, in altri continenti e altri paesi.
Gli incontri sono stati una chiave di volta per comprendere questi spazi che a colpo d’occhio assomigliano a tappeti verdi srotolati lunghi migliaia di chilometri che ospitano orsi, alci (i cosidetti “moose” dei cartelli stradali), castori cervi salmoni e aquile. Eppure, sfogliando guide, passeggiando per città e parlando con persone si scopre la cultura all’interno della natura: le storie degli “Amerindi”, dei “Metis” e degli “Inuit” gli autoctoni che hanno subito le mire coloniali dell’Inghilterra e della Francia, ma anche le leggende locali e i personaggi che le hanno dato vita. La leggenda di Charles Blondin è la prima che incontro mentre osservo i 600 metri di ampiezza della acque che si rovesciano diventando le cascate più famose del mondo: le Niagara Falls. Nel 1860 questo uomo le attraversò per la terza volta camminando su una fune d’acciaio, a metà strada si fermò e si cucinò un’omelette su un fornellino portatile, un tiratore scelto poi sparò al suo cappello da una barca 50 metri più in basso. Poche centinaia di km dopo c’è Toronto che conserva la leggenda di Glenn Gould, il pianista più carismatico e strano del mondo: a 32 anni smise di suonare dal vivo sostenendo che gli spettacoli erano troppo imprevedibili e caotici, odiava gli sport sanguinari ai quli assimilava anche i concerti “live”. Aveva una vita pubblica limitta alle sale di registrazione e faceva lunghissime telefonate in ore notturne ai suoi amici collezionando bollette da migliaia di dollari. Diceva di odiare il virtuosismo e le poche volte che suonava in pubblico sedeva su una vecchia e bassa sedia cigolante costruita dal padre, “i pianisti siedono troppo in alto” diceva, non c’era brano musicale che su richiesta dei suoi conoscenti non sapesse suonare all’istante grazie alla sua prodigiosa memoria, iniziava sempre mettendo le braccia in un secchio di acqua bollente per attivare la circolazione poi sedeva sulla piccola sedia e si dondolava mentre toccava i tasti e accompagnava le melodie con la voce. L’estro creativo, a detta di alcuni o la pazzia a detta di altri, lo spinse a reinterpretare i brani classici considerando i calibri di Mozart o Chopin alla stregua di “uomini di spettacolo e nulla più”. Leonard Bernstain che lo diresse in un’occasione si scusò anticipatamente con il pubblico dichiarando che non lui ma bensì Gould stesso, sarebbe stato responsabile di quanto suonato alla platea. “Quel pazzo è un genio” si disse di lui quando nel 1956 il suo album di musica classica fu il più venduto al mondo, poi nel 1982, data in cui dichiarò avrebbe smesso completamente di suonare, morì.
Mi allontano dalle Niagara Falls e copro altri 300 km in mezzo a foreste di pini e laghi.. una vista maestosa, inizio a capire l’orgoglio dei canadesi per la loro terra e la percorro trotterellando con il motore a bassi giri, un occhio puntato sulla strada e uno sul cielo. Sopra di me le nubi formano geometrie imperfette accostando il bianco e il grigio, mi trovo spesso al confine tra nubi “buone” e nubi “cattive”, solo le curve della strada decideranno sotto quali dovrò transitare. Non vedo le pecorelle nelle nuvole, vedo solo gigantesche cisterne pronte a rovesciarmi addosso i loro umori, suole scure pronte a schiacciarmi, a volte sembrano astronavi dalle quali fuggo a piena velocità facendomi sfiorare dall’acqua solo pochi minuti. Arrivo a Thunderbay sulla costa settentrionale dell’imponente “Superior Lake”, realizzo subito il senso di questo nome altisonante guardando i fulmini che dividono il cielo, sino a poco prima ho incontrato un buon clima, pochi rovesci e poche ma lunghe strade: la 21 che costeggia il lago Huron sino all’incantevole porto di Tobermory, poi dopo aver traghettato con il Ferry verso Manitoulin island ho ripreso la marcia sulla interstate 17 sino a giungere alla “baia dei fulmiini” sotto la pioggia e i lampi.
Tre giorni prima a Tobermory ho incontrato un signore attratto dagli adesivi attaccati alla moto che raffiguravano il continente americano con la scritta “3 Americas”, gli ho spiegato in poche parole la mia destinazione finale, l’Argentina. Le nostre affinità elettive per i viaggi e l’intercultura ci hanno consentito di familiarizzare rapidamente e ho ottenuto il suo numero e indirizzo di Thunder Bay. Così, bagnato fradicio estraggo dalla tasca il loro numero e li chiamo. Mezz’ora dopo sono a casa loro, dai convenevoli passiamo subito ai discorsi, scopro di essere stato ospitato da un “ministro della chiesa”, forse battista o protestante, non ho ben afferrato. Si parla quindi di religione e io esprimo la curiosità e l’interesse che ho sempre avuto verso quelle appartenenti alle popolazioni centro-sud americane, riferendomi ai sincretismi ed ai culti che racchiudevano sotto vestigia cattoliche le divinità appartenute alle epoche precolombiane. Lui replica che non sono da confondere con la religione cristiana perchè..alla fine.. “o sei con Cristo o sei anti-Cristo”. Ok faccio un passo indietro e scambio quanto udito per inflessibilità e dogmatismo. In realtà poco dopo mi renderò conto che c’è stato una sorta di malinteso, era frutto di una speculazione esegetica che non riguardava le sue convinzioni. E’ tutt’altro che dogmatico e inflessibile come dimostrano i fatti che seguono: in un battibaleno tira fuori un pacchetto di marijuana e mi confessa di esserne un grande amante, mi racconta di come i fedeli lo abbiano criticato per questo “Ma come fa un uomo di Dio a fumare spinelli?” “Perchè non leggete la Bibbia!” mi racconta e va immediatamente a prenderne una, mi sventola davanti un versetto della Genesi con scritto di come nutrirsi dei frutti della terra, in particolare quelli contenenti i loro stessi semi sia cosa buona e giusta.. poi mi mostra fiero il sacchetto pieno di foglie sbriciolate e semini. Un’interessante interpretazione dei testi sacri. A completare il quadro ci saranno poi le storie dei funghi messicani e del peyote e la sua foto di quando cantava in un gruppo rock.
La sua disponibilità nei miei confronti è stata meravigliosa, mi ha lasciato dormire sul divano, fare la doccia calda e proprio dopo essermi lamentato delle sembianze da spaventapasseri mi ha regalato una camicia che gli vestiva fuorimisura. In effetti, anche impegnandomi, il mio vestiario è decisamente calibrato sulla leggerezza e semplicità, quindi la camicia a scacchi ricevuta in dono diventerà il mio pezzo da collezione, una sorta di smoking per le occasioni speciali.
Parlo anche con sua moglie, originaria di Acapulco e con le due figlie deliziose e simpatiche e poi gioco un poco con Frida: il loro piccolo chiwawa costantemente percosso da brividi anche solo quando mi limito a guardarlo, penso che avrebbe timore anche di un puffo. L’indomani ci salutiamo con abbracci, foto e la promessa di rimanere in contatto via mail.
Prima di partire mi ficca in tasca 20 dollari e dice ridendo che di soldi ne ha troppi.. “come mai?” “mah..fortuna..”
Un’altra città lasciata e un’altra leggenda, quella di Terry Fox: Terrance Stanley Fox all’età di 18 anni si ammalò di cancro e gli amputarono la gamba destra. Determinato a cercare una cura per recuperare i fondi organizzò una corsa da costa a costa e il 12 aprile 1980 partì da St.Jhon’s in Terranova. Per 143 giorni corse 26 miglia al giorno, soffrendo a causa della sua menomazione ma insistendo negli sforzi sino a coprire cinque province. Raccolse 35 milioni di dollari canadesi. Arrivato al miglio 3339, qui a Thunderbay, il cancro ai polmoni lo costrinse a tornare a casa, morì l’estate seguente. Passo ad est della città per vedere il bronzo che lo raffigura impegnato a correre.
Riprendo anche io a muovermi lungo la Terry Fox Courage Highway in direzione di Winnipeg, il sole cala, abbellisce i laghi di mille lucciole e arricchisce i pini di mille ombre, il tramonto arriva e mi cerco in una via secondaria un posto dove campeggiare, uno dei tanti “CampGrounds”. In Canada potete trovare molti campeggi, motel o “inn” per passare la notte, e anche se non possedete un mezzo vostro potete affittare una macchina o prendere biglietti turistici per pullman o treni che attraversano per migliaia di chilometri l’entroterra sino a raggiungere le coste, alcuni di questi hanno anche convenzioni per i pernotti o addirittura posti già prenotati in diverse località. Potrete trovare informazioni negli uffici turistici o sul sito della compagnia di trasporti per i pullman o per i treni.
Pianto la tenda in una radura meravigliosa, accendo il fuoco e poi giusto il il tempo di mangiarmi un panino e le luce si ritira sulla linea dell’orizzonte lasciandomi all’imbrunire seduto su una pietra a finire l’ultimo frutto. Rimango imbambolato a guardare il fuoco che scoppietta, ricordo con piacere i bivacchi con gli amici che facevo da ragazzino, li rivedo nei bagliori e nelle ombre del fuoco, immagino le loro voci e provo una serena malinconia. La libertà di viaggiare da soli chiede in cambio un tributo alla solitudine, lo pago, entro in tenda, poi nel sacco a pelo e mi corico dopo una piccola veglia alle stelle di 5 minuti, estasiato dalla “calotta” di cielo nero come la pece con le sue mille lentiggini bianche spruzzate nel cielo.
Mi lascio alle spalle la provincia dell’Ontario dopo giorni di strada ed anche un fermo della polizia che mi ha messo in guardia sui pericolosi attraversamenti dei “moose”, le alci canadesi, e degli orsi lungo le statali che sto percorrendo. Avvicinandomi a Winnipeg entro nella provincia di Manitoba e mi riconnetto all’Interstate numero 1, la cosidetta Trans-Canada che conduce sino a Vancouver sulla costa Ovest e poi volto a nord per immettermi sulla numero 16 diretta a Nord-Ovest verso le montagne rocciose canadesi. Dopo l’Ontario il paesaggio inizia a diventare piatto e monotono, trovo più interessante guardare il cielo che nonostante la minaccia di rovesci mostra un’infinità di nubi intrecciate che creano diversivi alla piattezza dei campi circostanti. Alla fine della giornata ho percorso 500 km di cui gli ultimi 100 assistendo a un progressivo peggioramento nel cielo, ho iniziato la riserva ma non ho incontrato stazioni di rifornimento aperte, la situazione si è fatta critica e le mie condizioni fisiche sempre più tirate. Ho imboccato la prima strada sterrata sperando di incontrare qualcuno a cui chiedere permesso per piantare la tenda, purtroppo l’unica casa era vuota ma 20 metri più in la ho scorto una piccola strada nei campi parzialmente bloccata da una sbarra di metallo, sono riuscito a passare con la moto e dietro vi ho trovato un cimitero di automezzi abbandonati in mezzo ai campi: trattori, vecchi furgoncini, jeep e un paio di mezzi agricoli. Dopo una buona mez’ora di indecisione non ho saputo resistere e mi sono accampato quanto più lontano dalla vista possibile. Ho fatto due riprese video ed ho montato la tenda anticipando di pochi minuti lo scatenarsi dell’inferno: pioggia battente, lampi e fulmini a ripetizione. Sono stato letteralmente bloccato nei miei pochi metri cubi di tela in attesa che il tempo si fosse rasserenato, le prime ore della notte sono passate tra lampi e tuoni tanto da dovermi tirare il sacco a pelo sugli occhi per evitare la luce dei lampi rifratta mille e una volta sulla superficie della tenda. Tenevo le dita incrociate a scongiurare che l’acqua entrasse in qualche intercapedine e rimanevo appallottolato nel mio bozzolo di piume d’oca.
Sono stato bloccato in tenda 16 ore in totale, sebbene i lampi siano terminati dopo due o tre la pioggia prima forte e poi lieve ha insistito sino al primo pomeriggio del giorno seguente. Uscendo dal cimitero di automezzi dove avevo trovato rifugio sono stato immediatamente fermato da un urlo: era il proprietario che sentendo la moto si è messo a bloccarmi la strada. Fortunatamente dopo avergli spiegato le condizioni tragicomiche che mi hanno spinto a sostare nella sua terra la situazione si è distesa, è stato comprensivo e si è pure offerto, qualora non avessi trovato benzina, di regalarmene un gallone. Ho fatto da me, scoprendo a 10 km una stazione di rifornimento.

Procedo silenzioso lungo l’interstate 16, mi dirigo ad Ovest ma guadagno miglia anche verso nord, da quando sono entrato in Canada ho cambiato fusi orari e anche diversi modi di vestire, prima ero con la maglietta e la giacca adesso con maglione giacca di pelle, pile antivento girocollo, guscio e pantaloni antipioggia; e non basta ancora per isolarmi dal freddo.
Avvicinandomi al polo Nord la differenza di clima si sente, ma la posso sopportare, almeno per ora, quando arriverò alle Rocky Mountain, nel Jasper Park dovrò inventarmi qualcosa per non patire il freddo. Il mio vestiario non mi consente molta autonomia in caso di rovesci, resisto sotto pioggia battente non più di 100 km, poi il bagnato e il freddo iniziano a infiltrarsi anche sulla schiena, le gambe e le mani sono le prime a soccombere, la volontà di proseguire viene subito dopo. Viaggio appoggiando le gambe e la mano sinistra alle teste dei cilindri che mi regalano calore, ma è ben magra consolazione.
Costeggio tantissimi laghi, in Canada sono più di 30.000, e in alcuni di essi abitano strani animali marini, ci sono leggende e controversie scientifiche in merito a strani avvistamenti come quello dell'”Ogopogo” serpentiorme e lungo 13 metri apparso un anno fa agli occhi di due canadesi nel lago Okanangan. Oppure il “Ponik” del Boucanee River, o il Manipogo del lago Manitoba.
Finalmente dopo parecchia strada mi guadagno un cielo abbastanza terso e lo sguardo si riposa su quanto mi circonda: pianure, campi coltivati e pieni di balle di fieno arrotolate. Le possibilità di camppeggiare “liberamente” si riducono parecchio, in Ontario prendendo la prima perpendicolare alla trans-canada con buone probabilità e qualche cattivo sterrato si trovava una nicchia isolata per piantare la tenda. Il campeggio libero è permesso ma nella provincia di Saskatchewan e Manitoba trovare un posto isolato per la tenda e la moto è ardua impresa, soprattutto perchè quasi tutti i terreni agricoli che fiancheggiano le statali sono proprietà recintate.
Arrivo quasi nella regione di Alberta, la penultima attraversando il canada in direzione ovest prima della Columbia Britannica, il sole tramonta e prendo una strada secondaria, mi fermo in una fattoria chiedendo se c’è un posto per piantare la tenda. Nonostante faccia gli occhioni dolci e racconti la mia impresa transamericana il proprietario freddamente mi da le indicazioni per un campeggio distante una trentina di km, poi richiama i tre cani che nel frattempo mi stavano perquisendo con i loro tartufi. Ringrazio e me ne vado, non mi ha concesso la sua terra per una sola notte ma almeno mi ha dato qualche indicazione. Raggiungo il campeggio che è quasi notte e piazzo la tenda illuminandomi con il faro della moto.

E’ il 3 settembre,

mi lascio alle spalle il campeggio Silver Lake dopo aver passato una notte decisamente fredda, nel pieno del mio dormiveglia mi sono dovuto rimettere la giacca da moto, il freddo era pungente e nonostante mi girassi come uno spiedino arrotolandomi nel sacco a pelo la situazione non cambiava. Sono comunque riuscito a riposare ma le borse sotto gli occhi che mi ritrovo al risveglio sembrano dire il contrario. La mia marcia dura più di 400 km, finalmente il parco di Jasper si fa vicino, in prossimità di Edmonton mi sono fermato in un WallMart acquistando una coperta e un paio di guanti da lavoro in gomma che ho riadattato con la forbice, non sono molto comodi ma proteggono dall’acqua meglio di quelli bucati che uso ormai da anni. Me la sono cavata con 20 dollari e la compassione di una commessa. Stradafacendo sono riuscito a prendere ancora acqua, colpa delle solite nubi-astronave che troppo spesso mi capita di incontrare. Mi fermo a un Mcdonald e bevo un caffe bollente per riscaldarmi, prendo un giornale locale e strappo di nascosto le previsioni meteo. Le conservo come un amuleto portafortuna, geloso delle informazioni che contengono che per una volta depongono a mio favore. Sembra che nei prossimi giorni non vi sarà rischio di pioggia lungo il mio tragitto. La sera mi fermo in una pineta a lato della strada, è una sorta di campeggio senza gestori, accendo un piccolo fuoco e mi scaldo le due scatolette di pollo comprate il giorno prima, una cena essenziale ma gradevole. Sfrutto il caldo del fuoco per asciugare il Toporso, il mio pupazzo-mascotte ricevuto in dono alla mia nascita da parenti che nemmeno ricordo. Le fiamme sono forti e i bottoni che si trova al posto degli occhi si sciolgono, lo levo subito e mi maledico. Rimango chino osservando le fiamme e sistemo alla meglio i pezzi di legno perchè possano bruciare il più a lungo possibile. La mia tenda dista due metri, è la distanza di sicurezza minima per evitare inconvenienti con eventuali tizzoni ardenti ma al contempo insufficiente per ricevere il calore del focolare. La temperatura scende sotto lo zero e ho già capito l’antifona, ripeto meccanicamente le procedure di vestizione come un palombaro che assicura il suo scafandro. Anche oggi è arrivato il riposo del guerriero. Domani dovrò recuperare quante più informazioni possibili sulle condizioni climatiche delle montagne rocciose, c’è il rischio che debba rinunciare ad attraversarle per il lungo da Nord a Sud, pena l’assideramento. Vedremo

E’ il 4 settembre, parto alla volta di Jasper Park, uno dei parchi più belli e incontaminati del nord america, la casa di “Moose”, l’alce Canadese, e dei suoi amici selvaggi. Mi capita di incontrarne un paio che fortunatamente non intendono lanciarsi contro la moto ma rimangono ai bordi delle strade, riesco a fargli due foto. Poi raggiungo Jasper dopo aver pagato la mia tassa di ingresso al parco naturale, faccio benzina perchè la prossima stazione di rifornimento sarà a 140 km di distanza, controllando quanti litri immetto nel serbatoio inizio a rendermi conto che la moto sta consumando di più da dopo l’acuqazzone preso per 16 ore consecutive qualche giorno prima. “D’accordo, ti ho lasciato fuori come uno bastardo per 16 ore senza coprirti e hai cercato vendetta aumentando i consumi e terrorizzandomi con la spia dell’olio per 20 km prima che decidessi di spegnerla da sola…, me lo merito ma adesso piantala!! Ti ho coperto con il tuo maledetto sacchetto di plastica di due metri e mezzo tutte le altre notti.. e non dire di no!” – Silenzio –
Un signore con la sua moto da enduro mi approccia, si chiacchiera e poi guarda la mia motoguzzi.. “mm.. non ti ha mai dato problemi?” “no” “non si è mai rotto niente?” “no” … ma a tradimento arrivano i ricordi di quanti km fatti a spingere le mie vecchie moto, forse più di quanti fatti in sella, poi quelli dello spedizioniere che mi raccontava come l’unica Guzzi spedita in america l’hanno prima fosse scesa dal container e salita direttamente sul camion dell’officina perchè non partiva.. Mando via i brutti pensieri che per il Guzzista equivalgono a una momentanea “perdita della fede”, concludo la mia chiacchierata chiedendo consigli su strade e percorsi. Riprendo movimento lungo l’unica strada panoramica, è decisamente un lustro per gli occhi e un supplizio per il corpo che di chilometro in chilometro si raffredda sotto il vento che arriva dai ghiacciai soprastanti, mi fermo, faccio due foto e poi genuflesso come un cavaliere appoggio le mani sul cilindro sinistro cercando di usurpare tutto il calore che produce. Riprendo tra laghi, montagne e pinete meravigliose, arrivo a Lake Louise, tra Banf Park e Jasper Park, trovo un campeggio, scrivo due righe al computer e inizio a montare il mio armamentario. C’è foschia nell’aria e ognuno nella propria piazzola rimane seduto sulla sua panca di legno senza socializzare, chi legge con il berretto calato sino alle sopracciglia e chi sta appoggiato al sedile della macchina con lo sguardo fluttuante tra le cime dei pini. A me tocca prepararmi un panino con il salame. Mangio e come di consueto metto cibi e avanzi in un sacchetto a diversi metri dalla tenda, una contromisura per gli orsi, purtroppo contravvengo al buon senso e mi tengo i biscotti in tenda, li difenderei a costo della vita e voglio svegliarmi il giorno seguente e mangiarli subito. Rido leggendo sulla guida del parco che esistono spray “anti orso”, ero rimasto a spray che fermano zanzare o al limite stupratori ma a quanto pare ce ne sono anche per bestie di 300 kg. Alcuni mi chiedono come mi regolo con il problema degli animali selvatici, grizzly nella fattispecie o “black bears”. In effetti mi è capitato di leggere di tutto al riguardo, chi consiglia di fischiare, chi di accovacciarsi, chi di arrampicarsi, chi di fingersi morti. L’unica cosa certa è che sto sottovalutando il problema, o meglio, ho sempre tenuto i cibi lontani dalla mia postazione ma ho anche sempre pensato che la goffaggine e la mole di un orso lo renderebbero decisamente lento e impacciato qualora tentasse di inseguirmi mentre scappo. E’ qui che sbaglio. Ken, presso cui sto sostando da un paio di notti, mi ravvede subito “if you run away you’re fucked man!!” e scopro che un orso può raggiungere i 30 – 40 km orari. In sostanza, mi spiega Ken, non c’è scampo, se stai tranquillo molto probabilmente si disinteressano rapidamente a te e cercano cibo, ma se dovessero attaccarti l’unico modo è rannicchiarsi e proteggere la nuca cercando di stare immobili. “Ma se spaventi un piccolo grizzly e sua madre è nelle vicinanze molto probabilmente sei fottuto ugualmente” dice Ken, “..se invece è un giaguaro o un orso nero allora gli puoi risultare appetitoso anche rannicchiato per terra e in quel caso fai bene a mostrarti aggressivo, ma sino a che non si mette male stai sempre calmo e tranquillo” Insomma credo che sarei morto ancora prima di capire da che specie vengo aggredito ma fortunatamente le casistiche sono veramente rare anche se ogni anno si contano sempre le vittime di aggressioni. Bene, fatta la cronaca nera, riprendo a raccontare il trascorso; mi alzo la mattina dopo passata a lottare contro il freddo con la mia nuova coperta di pile e al posto dell’orso trovo un corvo lungo 40 cm che passeggia tra le piazzole cercando cibo. Leggo i messaggi sul cellulare, il mio amico meccanico mi scrive “come va con la Guzzi?” e io rispondo “benissimo”. Accendo la moto per scaldare il motore, e inizio a sentire un odore fin troppo familiare: benzina. Scopro un tubo che perde e sotto una lieve pioggerellina inizio a smontare il serbatoio con un piglio e un’allegria da funerale. Trovo il maledetto tubo, è consunto e a ben ricordare mi ero pure appuntato di prendermene un metro di scorta, mai fatto. Lo avvolgo con il nastro isolante e rimonto tutto, guardo la moto contrariato e non dico una parola, lei nemmeno. Accendo il motore e il tubo non perde più, non lascio trasparire contentezza, è troppo presto, semplicemente mi rimetto in marcia. Ridiscendo lungo il Banf park. Tre ore dopo incontro Ken.

Ci sono tre cose che non devi fare per fare arrabiare Ken:
1) Non fargli mancare le sigarette: Ken fuma solo quando arrivano stranieri fumatori e gode nel farlo quindi non togliergli questa possibilità
2) Non parlare bene degli Indiani: Ken affitta lo spazio per la sua casa in una riserva indiana in cui gli indiani ricevono casa, soldi, assitenza e qualsiasi copertura senza pagare nulla, nemmeno le tasse. Questa è una forma di “scusa” per i torti subiti ma Ken si è stufato di vederli ubriachi e nullafacenti.
3) Non sbagliarti quando lo chiami: il suo nome è Ken e non Kent

Tre sole avvertenze e poi la strada dell’amicizia è spianata e percorribile. Cosi stiamo seduti in veranda a chiacchierare insieme a Maureen, entrambi sono sulla sessantina, affabili e simpaticissimi. Lui è di discendenze ucraine e lei scozzesi. I discorsi ci trasportano in ogni dove, finche parlando del senso del mio viaggio concordiamo sul fatto che è una fortuna e che è normale che attiri l’invidia di molti. Io replico raccontando le mie preoccupazioni relative al vuoto che ho davanti pensando al mio futuro, un vuoto che posso riempire con la libertà di decidere e fare quello che voglio ma anche un vuoto che mette ansia in certi momenti, nella fattispecie quando penso a chi nel mio paese ha “attraccato porti sicuri” e messo radici consuete e tranquillizzanti che in questo momento sento di non possedere. Possiedo una moto e un pc portatile ora, prima anche la certezza di come e dove impostare la mia professione e la mia vita.. adesso le ho perse.
“Guarda amico mio” mi dice dondolando sulla sua sedia in legno nella veranda che affaccia sulla riserva indiana “ho lavorato duro nella mia vita, ho deciso di fare soldi e fermarmi a 55 anni, ritirarmi e godermi i frutti del mio lavoro, poi a 54 anni successe una cosa…”
“Cosa?” replico io.
“Mi diagnosticarono un tumore al sangue che ora, attraverso una proteina, colpisce anche le terminazioni nervose impedendomi di fare certi movimenti” e mi mostra la mano tremante mentre cerca di muovere una penna tra le dita.
“Non c’è speranza, mi hanno dato qualche anno di vita”
“I am a death man walking my friend”
Dissimulo sul volto quanto mi passa dentro: è forte.
“Non è strano? Ho tutte queste cose e non posso sfruttarle, la roulotte che ti ho lasciato per dormire non posso più guidarla e rimane li immobile, adesso c’è una lieve remissione dei sintomi fortunatamente ma… la malattia rimane”
“E’ raro incontrare persone ricche di tempo e ricche di denaro” mi aggrego io riprendendo un pensiero nato in questo stesso paese un mese prima.

“Ti racconto una storia my friend: c’è un becchino che preparando un cadavere prima della sepoltura gli controlla le tasche e vi trova dieci dollari dentro, e sai cosa dice?”
“No”
“Dice: Questo uomo ha lavorato mezz’ora più del necessario”
“Cosa significa?” Rispondo.
“Significa che quell’uomo ha speso quello che ha guadagnato nella sua vita tranne quegli ultimi 10 dollari avanzati, quella mezz’oretta di lavoro in più, è stato bravo a far avanzare così poco, cosa ti serve morire ricco?”

Dopo pacche sulle spalle e l’augurio di un buon riposo ci salutiamo tutti e tre, mi incammino vero la roulotte e vado a letto sereno, ancora una volta stupefatto e contento dello splendido incontro fatto con queste persone.
Ripenso a quando ci siamo conosciuti due giorni prima:
“Salve, conosce per caso un posto nei paraggi dove posso piantare la tenda?”, mi rivolgo con questa frase a un uomo che lavora il suo orto dopo 30 minuti di sterrati alla ricerca di un fantomatico campeggio gratuito segnalato da un cartello in prossimità del confine con gli Stati Uniti a Sud di Calgary. Il signore mi guarda, “dove sei diretto?” “ma..principalmente in sud america ma per il momento sto rientrando negli Stati Uniti dopo aver attraversato il Canada..”. “Hai detto sud America? .. vieni puoi piantarla nel mio giardino, ho lavorato ovunque in sud america!”. Cosi conosco Ken e sua moglie Maureen, mi fermerò da loro alcuni giorni ospitato non nel giardino ma bensì nella loro bellissima e confortevole “MotorHome”, una roulotte di 7 metri equipaggiata di tutto che lasciano parcheggiata di fianco alla loro casetta nella riserva indiana di Tobacco Plains Il posto è incantevole e le conversazioni prendono le direzioni più disparate, dal mio viaggio ai loro, dalla loro vita alla mia, dal Canada all’Italia passando per Stati Uniti Europa e Oriente, e molto più in là..
Sono eccitato alla sola idea di avere un tetto sopra la testa e un piccolo calorifero elettrico che mi permette di dormire in mutande, cosa che non facevo da più di un mese a causa del clima tutt’altro che mite. La prima sera, rimango seduto sugli scalini della roulotte esausto per le ore di viaggio ma meravigliato da questo ennesimo incontro. E’ la seconda volta che provo ad uscire dal confine canadese ed è la seconda volta che un forza immateriale fatta di circostanze, accadimenti e incontri mi trattiene nuovamente entro i suoi confini per scoprire e conservare ancora di più. La natura di questo viaggio è affidata al caso fortuito, all’improvvisazione e alle condizioni meteo ma inizio a sentir crescere sullo sfondo una trama più complessa e sensata fatta di incontri esperienze e storie che mi orientano meglio di quanto non abbiano fatto le mappe o i depliant. Prendo il mio tempo dunque e rientro nella motorhome per vivermi la prima notte al di sopra dello zero, arrotolato in una coperta che non devo dividere con batteri ed acari e con una stufetta che si cura di tenermi caldo fino a mattina. Questo è l’ultimo ambiente del mio racconto canadese, iniziato in un motel e continuato lungo la strada e in tenda. Per quanto delizioso sia il posto e per quanto lo siano Ken e Maureen a breve dovrò levare le ancore e riprendere la strada magari posticipando ancora l’ingresso negli Stati Uniti spostandomi verso Vancouver per qualche altro centinaio di chilometri.
Prima o poi dovrò girare verso sud e iniziare la lenta caduta libera verso il centro e Sudamerica cambiando climi, stagioni, ambienti lingue e culture.

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