di DB Maurizio
Che un giorno avessi spedito la mia Guzzi Florida 650 negli States, non ci avrei proprio giurato a dispetto del suo nome. Ed invece, ecco, ormai il più è fatto ed è tutto pronto per la partenza. Mi ritrovo in una giornata di fine luglio in compagnia di Vincenzo, colui che ha risolto tutti i miei problemi pratici e burocratici di spedizione. Siamo a Milano in un anonimo magazzino di uno spedizioniere altrettanto sconosciuto, e la mia “Motina”(come confidenzialmente la chiamiamo mia moglie Daniela ed io) è completamente prigioniera in una gabbia metallica, assieme a tutti i suoi accessori, borse, attrezzatura da viaggio, tenda, sacchi a pelo, tute, ecc. non manca nulla insomma, ad eccezione dei caschi. Sono in uno stato d’animo di confusione che passa dalla felicità, perché si sta concretizzando il viaggio, all’insicurezza di chi non è certo di fare la cosa giusta. In fin dei conti, non posso dire di conoscere questa persona, eppure gli ho consegnato un discreto acconto e il libretto della moto. E soprattutto, perché sto per abbandonare (per la prima volta) la mia Motina impacchettata in una gabbia, con la coppa dell’olio a tre centimetri dal pavimento? Speriamo bene!
Tutto ha origine qualche mese prima quando, all’inizio dell’autunno, cominciamo a valutare le varie mete possibili per la prossima estate, e l’idea del Coast to Coast in solitaria, non certo nuova, si ripresenta. Questa volta però, a differenza di altre, la teniamo in seria considerazione, forse convinti di disporre di una maggiore maturità motociclistica o più semplicemente perché non c’era un motivo per non tentare la progettazione del viaggio almeno a tavolino.
La primissima cosa è una stima dei chilometri, che in linea d’aria da New York a Los Angeles è di circa cinquemilacinquecento; ma non si può certo pensare di andare negli Stati Uniti per fare una corsa da una sponda all’altra del continente! I costi, infatti, senz’altro notevoli, impongono di sfruttare al massimo la trasferta Americana per conoscere e vivere il più possibile questa Nazione così lontana. Da un successivo calcolo un po’ più dettagliato i chilometri diventano quasi il doppio, perciò un mese è indispensabile per vedere qualche cosa senza correre continuamente.
Ci sono diverse possibilità per compiere un Coast to Coast in moto in solitaria e senza ricorrere ai viaggi organizzati. Un’idea, per esempio, è l’acquisto del mezzo negli USA da rivendere prima della partenza. Comunque, anche se più facile che in Italia, la compravendita presenta troppe incognite per chi non conosce il Paese, non ha nessun appoggio in loco e per di più ha i giorni contati. Il noleggio è senz’altro una soluzione accettabile, ma la vera libidine è sicuramente la spedizione oltre Oceano della propria motina. A volte prendere una decisione non è così facile; per questo, escludendo subito l’acquisto, optiamo per approfondire sia il noleggio che la spedizione. Le settimane cominciano a trascorrere e l’idea del viaggio prende forma in un itinerario dettagliato che Daniela ha sviluppato, guarda caso, proprio di diecimila chilometri, ma il problema del mezzo è ancora da risolvere. Tramite internet contattiamo alcune società di noleggio dello Stato di New York che, purtroppo, non ci danno la disponibilità della moto per un viaggio del genere. Capiamo allora che ci sono delle difficoltà per questo tipo di servizio, perché prendere una moto a New York per poi lasciarla a Los Angeles è come noleggiarla in Sicilia per lasciarla a Capo Nord, a oltre cinquemila chilometri! Interpelliamo allora un paio di compagnie specializzate nel noleggio, una americana e l’altra europea, con il risultato di avere la soluzione a portata di mano, ma a costi, per una moto di media cilindrata, decisamente elevati (superiori a cinque milioni delle vecchie lire). Le cose non vanno molto meglio nella ricerca di uno spedizioniere, non perché non ce ne siano di disposti a fare il trasporto, ma perché normalmente non rientra nelle loro competenze quella di preparare i documenti che permettono di far circolare liberamente una moto italiana su tutto il territorio statunitense. Tra un tentativo e l’altro, evidentemente sbagliati, l’autunno e l’inverno sono trascorsi senza approdare alla soluzione. Temo che dovremo abbandonare; non sappiamo come proseguire.
E’ in questo momento che casualmente, sfogliando una rivista di moto, conosciamo Vincenzo il quale, molto disponibile, ci prospetta la possibilità di fornire il servizio di trasporto e i certificati necessari, compreso il carnet de passage. Purtroppo, essendo tardi, non sarà più possibile spedire la moto via nave, ma solo via aerea. Questo fatto inciderà sul costo del viaggio, ma non certo quanto il noleggio. A questo punto non ci resta che coordinare con Vincenzo i tempi di permanenza e di rientro della Guzzi da Los Angeles, nonché i contatti con i vari spedizionieri in loco.
La protagonista
Al momento della trasferta la mia Florida dell’89 ha al suo attivo oltre centomila chilometri, ma una manutenzione normale, olio, filtri, candele, pneumatici e qualche controllo straordinario è sufficiente per darle una forma smagliante e garantire tranquillità al sottoscritto. Anche se non avevo alcun dubbio sulla sua affidabilità.
L’equipaggiamento
Sostanzialmente nulla di particolare rispetto ad altri viaggi europei fatti all’insegna del camping e dell’autosufficienza, quindi: la tenda igloo, i sacchi a pelo, i materassini, il fornello con il set di pentole in alluminio, un po’di vettovaglie di vario tipo quali pasta disidratata ecc., le tute anti pioggia, un minimo di abbigliamento per i trenta giorni, il telo moto e qualche ricambio di prima necessità come candele, olio motore, cavi, le solite cose che si trovano ovunque ma che nel momento in cui servono è bene avere a portata di mano. Inoltre, naturalmente, una guida, carte geografiche, indirizzi utili, (il cellulare di Lo Giusto!), assicurazioni personali (molto importante e per importi altrettanto seri), e un elenco dei concessionari Guzzi di tutti gli Stati Uniti (non si sa mai!).
L’itinerario
La scelta e la stesura del tragitto si sono basate su due punti fondamentali: quello che ci sarebbe piaciuto vedere e il tempo a nostra disposizione. Era necessario tener conto che una condizione fondamentale per il rientro della moto era quella di consegnarla nei termini stabiliti allo spedizioniere di Los Angeles dove sarebbero stati in precedenza recapitati sia i documenti che la cassa per l’imballo. Inoltre bisognava considerare che il nostro permesso di transito e l’assicurazione avevano validità trenta giorni e che, naturalmente, il nostro volo di rientro era già prenotato.
Considerato quindi che ad Ovest ci sono il maggior numero di Parchi Nazionali e di città interessanti, la prima parte del viaggio dopo la visita di New York di un paio di giorni, (unico pernottamento riservato), consisterà in un rapido trasferimento (circa 3400 km !) proprio in linea retta attraverso una decina di Stati. Da New York al New Mexico, passando per Daitona, Indianapolis, San Luis, Oklahoma City, Amarillo, Roswell, El Paso e calpestando di tanto in tanto la mitica Route 66, tralasciando, purtroppo, le cascate del Niagara e altri luoghi meritevoli di attenzione da destinare a un altro viaggio. La seconda parte, tuttavia, tra Parchi e città eccezionali, sarà veramente il massimo: Alamogordo, White Sands National Park, Santa Fe, Petrified Forest N.P.,Canyon de Chelly, Mesa Verde N.P., Durango, Arches N.P., Canyonlands N.P., Raimbow Bridge N.P., Monument Valley, Grand Canyon N.P., Bryce Canyon N.P., Zion N.P., Las Vegas, Dead Valley (dipende dalle temperature), Sequoia N.P., Yosemite N.P., San Francisco, Monterey, Los Angeles, (dovrebbero bastare).
Normalmente sono ottimista, ma difficilmente avrei immaginato che la Florida potesse stare nella cassa che Vincenzo mi aveva presentato come imballo. Eppure, dopo sei ore di preparazione, il pacco per gli USA è pronto. Tra l’altro, per poter essere caricata nella pancia del cargo, Motina ha subito un preventivo salasso di tutti i liquidi infiammabili, ovvero totale e tassativa assenza di benzina e olio motore nonché gomme sgonfie e batteria scollegata.
Circa una settimana dopo la partenza della moto per il Nuovo Continente, anche noi siamo in rotta per New York e nonostante uno stato di eccitazione ci pervada, vuoi per il nostro primo volo aereo o per l’emozione del viaggio stesso, un pensiero fisso mi tormenta: ma la coppa dell’olio, sarà ancora intera?
Atterriamo all’aeroporto di Newark a notte inoltrata con circa tre ore di ritardo, ma avendo prenotato una camera in un Best Western vicino a Time Square, siamo tranquilli. Come non detto. La nostra stanza, a causa del ritardo, non è più disponibile; per fortuna ci rimediano ugualmente una sistemazione provvisoria, che per questa notte andrà bene comunque. L’indomani, di buon mattino, ci mettiamo in marcia a piedi, come dei veri turisti, per esplorare Manhattan. La città è semplicemente eccezionale, ma in una giornata visitiamo in maniera un po’ affrettata solo alcune delle principali attrattive della Downtown: Times Square, Empire State Building, Chinatown, Soho, Little Italy, The 5th Avenue, Broadway, Brooklyn Bridge,Twin Towers (esatto, c’erano ancora!). Nonostante la giornata memorabile, non dimentichiamo lo scopo del nostro viaggio e troviamo anche il tempo di contattare lo spedizioniere per ritirare finalmente la moto, il giorno dopo. La mattina successiva, infatti, preparati i bagagli (la borsa con i caschi ed il beauty!), un taxi extra lusso, stile New York, ci porta direttamente a Jamaica, una zona periferica della città dove, dopo due settimane di attesa, rivedo la mia Motina. La sorpresa è grande quando ci troviamo di fronte Vincenzo che, senza perdere tempo, aveva quasi completamente sballato la moto dalla cassa. Brindiamo all’inaspettato incontro (e alla coppa dell’olio salva) ma ci mettiamo subito al lavoro per ricondizionare la moto perché prima di sera vorremo uscire dalla città. Rimontiamo la ruota anteriore, il parabrezza, gli specchietti e tutto il carico; acquistiamo lì vicino da un concessionario Guzzi l’olio motore, dove ci regalano qualche utile consiglio e un’ottima cartina stradale. Salutiamo Vincenzo, che ci consegna l’assicurazione RCA e il permesso per circolare e finalmente, sotto un acquazzone improvviso, usciamo dal deposito spingendo la moto verso il primo distributore di benzina per gonfiare le gomme e fare il primo pieno della gita. L’ottimismo non manca, anche se piove. Rapidamente imbocchiamo il ponte di “Verrazano” che ci traghetta nella terraferma ed in breve siamo nel New Jersey. Questo Stato, con le sue distese verdeggianti, è spesso luogo di villeggiatura e relax dei Newyorkesi, ed è proprio qui che verso sera, a solo duecento chilometri da New York City, piantiamo la nostra prima tenda in un bel campeggio in aperta campagna. Roba da non crederci: siamo in America con la nostra Motina nella nostra tendina e stiamo per partire per il Coast to Coast!
In questo Paese, dove tutto è Grande, strade, città, grattacieli, campagne, spazi, e una moto per essere tale non può avere meno di 850cc, la prima sensazione che abbiamo, noi con la nostra 650, carica come dei vagabondi, è di sentirci piccoli piccoli, insoliti, forse originali, e questo è ancora più avvincente.
Riprendiamo il viaggio la mattina successiva imboccando l’Interstate 70 direzione Ovest. Seguiremo la direzione Ovest per le prossime settimane, facendo attenzione in particolare di tenere il numero della strada prescelta, sia che si tratti di una Interstate Route oppure una State Route, nonché una Provincial Route. Talvolta, infatti, queste indicazioni saranno fondamentali o addirittura le uniche da seguire perché spesso anche lungo le principali arterie del Paese, i nomi delle città non sono segnalati. Il terzo giorno ci sentiamo più viaggiatori che turisti e cominciamo a vivere il Coast to Coast, cavalcando come dei veri easy raiders le Highways americane. Il mese di Agosto, in America, è probabilmente il più caldo dell’anno e ce ne rendiamo subito conto, appena ci allontaniamo dalla costa Atlantica, dirigendoci verso l’interno. Tra l’altro la temperatura e l’umidità aumentano anche di qualche grado in prossimità delle città, ed è proprio nella zona di Columbus, che nelle ore più calde del quarto giorno di viaggio, Daniela si sente male. Complice forse una bibita un po’ troppo ghiacciata, (il ghiaccio è un elemento sempre presente in grande quantità nella vita quotidiana degli Americani), o una dose di stress accumulata e non ancora smaltita, o soprattutto un caldo soffocante a cui non eravamo ancora abituati. Tutto fila liscio, fino a quando Daniela mi fa cenno di accostare in maniera un po’ insolita e urgente (pipì?). Siamo sull’Interstate 70, una superstrada a tre corsie per ogni senso di marcia e, così su due piedi, riesco a rimediare solamente un piccolo slargo di pochi metri alla nostra destra. La situazione si presenta subito preoccupante: Daniela si sente mancare, è sudata ed ha i brividi di freddo e mi dice di avere una forte tachicardia. E’ una situazione a cui non sono preparato, quindi la prima cosa che mi viene in mente è di farla distendere a terra, all’ombra di un piccolo cespuglio, coprirla con i giubbotti, dandole da bere a piccoli sorsi dell’acqua, e soprattutto parlandole e rassicurandola che non è nulla. In realtà, anche a me quella maledetta bibita fredda ha intorpidito le gambe, ma non era certo il caso di parlarne in quel momento. Trascorriamo più di mezz’ora in quella situazione. Ad un certo punto penso addirittura di utilizzare il telo in alluminio nel caso non le fossero passati i brividi di freddo, ma l’idea non piace a Daniela, che si rifiuta categoricamente di essere avvolta nel Domopak. Sul telo in alluminio, infatti, quando ancora in Italia stavamo preparando i bagagli per la partenza, ci avevamo davvero scherzato, considerandolo più che altro un accessorio scaramantico, e non contemplando certo il suo utilizzo se non per casi disperati. La situazione sta tornando quasi alla normalità, cosi decidiamo di riprendere pian piano il viaggio stabilendo una prima sosta alla successiva area di servizio lungo la strada, che troviamo, per fortuna, dopo solo una decina di chilometri. Ma Daniela è ancora troppo debole, e sicuramente la moto e il caldo non le giovano. Così stabiliamo di uscire dall’autostrada e di cercare un motel per avere un po’ di refrigerio e di riposo. Senza difficoltà, troviamo una bella stanza all’interno di un residence in una piccola cittadina. Ci sentiamo più tranquilli. La paura sembra passata, ma non è così: va certo molto meglio che lungo l’autostrada, ma Daniela continua ad avere tachicardia e ad essere debole. E’ già sera, e visti gli scarsi miglioramenti, chiamiamo il 911. Negli Stati Uniti, questo è il numero di emergenza per qualsiasi necessità si presenti, dal pronto soccorso, alla polizia ai vigili del fuoco. Dalla nostra telefonata, non trascorrono dieci minuti che si presenta nel parcheggio interno del residence, di fronte alla nostra stanza, un pick-up da pronto intervento, grande, bianco e rosso, con tutte le luci e i lampeggianti accesi che illuminano a giorno il piccolo piazzale del mothel; sembra di stare in un film. Ne scende un giovane, molto educato e risoluto nei modi, con uno zaino da astronauta sulla schiena, che subito si fa illustrare la situazione ed esegue dei test medici, tra cui quello cardiaco. Ci tranquillizza dicendo che è tutto normale, ma preferisce fare degli ulteriori accertamenti presso l’ospedale. Non c’è problema, in altri cinque minuti arriva l’ambulanza vera e propria, più grande del pick-up, altra scena da film, luci, lampeggianti ovunque (per fortuna niente sirene), questa volta escono incuriositi anche gli altri ospiti del mothel, e poi, tutti e tre, a luci accese, ambulanza, pick-up e il sottoscritto con la Guzzi, in fila verso l’ospedale. Siamo abbastanza tranquilli, lo spiegamento di forze è rassicurante. In effetti, anche dagli esami in ospedale non risulta nulla di preoccupante: a quanto pare, un colpo di calore. Al di là della diagnosi clinica, comunque, resta il dubbio se proseguire il nostro viaggio. A questo proposito il medico che ha visitato Daniela ci incoraggia a continuare prescrivendo, al momento del bisogno, dei calmanti. Come ultima cosa ci viene chiesto gentilmente se siamo in possesso di una assicurazione, che esibisco prontamente, dopo di che, con gli stessi mezzi, torniamo al residence. L’assicurazione coprirà le spese mediche, i farmaci acquistati, (che per altro non serviranno più) e anche le telefonate fatte per questo scopo. Siamo ragionevolmente sereni e ottimisti nel riprendere il viaggio, anche se rimane qualche piccolo dubbio sull’accaduto. In ogni caso ci sentiamo fiduciosi e rincuorati dall’efficienza dimostrata dalle strutture sanitarie. Dopo una nottata tranquilla, per la felicità degli altri clienti del mothel, riprendiamo la nostra direzione: West.
I quattro giorni successivi, prima di arrivare all’effettiva tappa iniziale dell’itinerario, passeremo attraverso Illinois, Missouri, Oklahoma e le praterie del Texas, fino a raggiungere il New Mexico, viaggiando a contatto con la gente della strada. I camionisti, per esempio, con i loro inconfondibili Trucks, magari con una casa su ruote agganciata dietro, ci faranno spesso compagnia durante le soste nei tipici caffè delle Highways. Percorreremo, per brevi tratti, la leggendaria Route 66 che fiancheggia l’attuale Interstate 40 e 44 da St. Louis ad Amarillo, regalandoci delle emozioni che solo un mito di questo calibro può dare. Altrettanto entusiasmante sarà varcare, con la propria Motina, i confini di Stati come Texas, per non dire Missouri, New Mexico o altri, che attraverseremo nei giorni successivi. Visiteremo infine Roswell, la città degli UFO per eccellenza, circondata da uno dei misteri più grandi dell’umanità, o semplice attrazione turistica. Certo è, che questo posto di lì a poco ci introdurrà nel panorama senza dubbio più alieno di tutto il sudovest degli Stati Uniti.
Siamo nel New Messico meridionale a sud di Alamogordo, dove il sole è più cocente, soprattutto in agosto. Ci apprestiamo a visitare il nostro primo parco nazionale: White Sands (18). Superiamo l’ingresso, e attraverso una comoda strada asfaltata, procediamo, con la Motina, alla sua scoperta. E’ uno spettacolo, un insolito deserto di gesso di oltre 500 chilometri quadrati, con pianure e dune bianche, bianchissime e luccicanti come neve. Semplicemente, la più grande distesa di gesso della Terra. Se non fosse per la temperatura, 30 – 35 gradi di troppo, sembrerebbe di viaggiare attraverso un paesaggio innevato.
Dei 51 parchi nazionali, alcuni dei quali situati nelle riserve indiane e gestiti dalle popolazioni locali, quasi tutti dispongono di un agevole percorso asfaltato che tocca i punti panoramici di maggiore interesse. Quindi l’accesso ai parchi, comunque a pagamento, è consentito con il proprio mezzo anche se, volendo approfondire la visita a piedi, c’è da camminare fino allo sfinimento.
Il giorno dopo White Sands, ci dirigiamo verso El Paso, ma un tempo decisamente inclemente ci consente solo una contatto fugace con la città, perciò riprendiamo immediatamente la direzione nord sulla Interstate 25, verso Santa Fe.
Il nostro itinerare negli States è scandito ogni sera da un consueto rito: individuare il campeggio per la notte. Fin dalla partenza, in ogni caso, non abbiamo avuto particolari difficoltà in questo senso, ma di certo la cosa si è resa ancora più facile dopo aver conosciuto il “koa kampground”: una catena di centinaia di camping, diffusi in tutto il territorio nazionale, molto bene organizzata, che dispensa mappe e materiale informativo sulle loro dislocazioni. Tanto pratica da costituire, talvolta, un punto di riferimento per definire in anticipo gli spostamenti del giorno.
Nel primo pomeriggio raggiungiamo Albuquerque. Poi, una veloce puntatina a Santa Fe. E’ una cittadina in perfetto stile messicano, ben tenuta e curata nei dettagli architettonici, a parer nostro fin troppo turistica. Da Albuquerque, seguiamo l’ Interstate 40, verso ovest, e siamo in un lampo al confine con l’Arizona. Qui, durante una sosta, incontriamo Jack (19), uno dei pochi motociclisti che conosceremo nel nostro giro. E’ un viaggiatore solitario, artistico al punto giusto, simpatico e tipicamente americano. La sua cavalcatura è una Goldwing 1200, carica di accessori e ricca di bagagli. Il tempo, purtroppo, gioca a nostro svantaggio e non potremo trattenerci a lungo con lui, ma una cosa, in particolare, ci rimarrà impressa dal suo incontro: un sincero e onesto stupore nei nostri confronti, quando, parlandogli del nostro viaggio, osservava la Guzzi, forse un po’ piccola per lo standard Americano .
Petrified Forest (20), ovvero la foresta pietrificata, è l’obbiettivo successivo. Vi arriviamo nelle prime ore del pomeriggio e lo spettacolo è da mozzare il fiato, come pure l’aria calda. Un paesaggio completamente desertico, strano e affascinante, irreale. La vera particolarità, però, sono i tronchi di conifere, nati 200 milioni di anni fa e ora mutati in pietra. Colmi di brillanti cristalli di quarzo, luccicano al sole con colori che vano dall’arancio al giallo, dal blu al rosa. E’ la più estesa foresta di alberi fossili al mondo. Ci dirigiamo verso nord, sulla statale 191. Da alcuni giorni, ormai, senza rendercene minimamente conto, abbiamo iniziato a salire gli altipiani del Colorado Plateau, portandoci a quote sempre più elevate, oltre i 2000 metri. Stiamo per fare conoscenza con gli indiani Navajo, visto che il territorio che attraversiamo è nella loro riserva, la più vasta riserva indiana degli Stati Uniti. Il paesaggio circostante assume un po’ alla volta un colore omogeneo: dalla terra alle rocce, a tratti anche l’asfalto, sono di colore rosso, con sfumature di rosso. Canyon de Chelly non è da meno perché dall’alto dei suoi quattro canyon ci troviamo ad osservare degli strapiombi di 300 metri di arenaria rossa. Tutto sommato non grande cosa rispetto a quello che vedremo più avanti. Continuiamo in direzione nord, sulla 191, fino ad imboccare la 160 est. Ci siamo: Colorado! Dopo le calure dei deserti circostanti, un po’ di refrigerio non ci dispiacerebbe affatto, e il parco di Mesa Verde è proprio quello che ci vuole. Situato in una delle zone maggiormente piovose del sud Colorado (nulla a che vedere con il nostro Friuli!), tra foreste di pini e abeti, ospita la bellezza di qualche centinaio tra abitazioni e villaggi del popolo indiano degli Anasazi. Costruiti in mattoni tra gli anfratti delle pareti dei canyon, ci offrono una visione decisamente diversa delle abitudini di queste genti, lontana dai soliti stereotipi degli accampamenti. Ci lasciamo alle spalle questa unica isola verde di tutto il Plateau e proseguiamo verso lo stato dello Utah. La 191 ci conduce ad Arches (21) e Canyonlands. Il primo, il parco degli archi, è stupefacente. Restiamo sorpresi da questi luoghi, introduzione al deserto di terra rossa (anche questo!), con un continuo alternarsi di formazioni di arenaria a forma di pinnacoli, monoliti e soprattutto archi, il più grande dei quali raggiunge una campata di 100 metri. Uno spettacolo della natura indimenticabile, come pure la nottata trascorsa in campeggio. Rientriamo verso sera nel camping in cui avevamo già preso posto nel primo pomeriggio, esausti ma contenti, dopo una giornata trascorsa tra il viaggio di trasferimento e la visita di Arches. Presi dalle nostre faccende quotidiane, non avevamo molta intenzione di chiacchierare, ma il nostro vicino di piazzola non era dello stesso parere. Ci invita a sedere con lui per gustare un vinello della California. E’ un inglese, un tipo chiacchierone e anche un po’ originale, ma più che altro, forse, viaggiando da solo con il suo Van, apprezza il contato con la gente. Nulla di male, anzi! Ma qualche suo discorso proprio non sta in piedi. Che sia colpa della traduzione? Rimaniamo con lui a parlare per una buona mezz’ora ma ad un certo punto, considerato che si sta facendo tardi, cerchiamo un pretesto per svincolarci. Abbozziamo così la scusa di dover ancora cenare (l’unico vero pasto decente della giornata) nonché di dover pianificare l’itinerario per l’indomani. Non sapremo mai se il suo comportamento, quella notte, sia scaturito dal nostro atteggiamento nei suoi confronti, oppure … da un eccesso di alcol. Di fatto, la notte stessa, mentre stavo nel profondo di un meritato riposo, Daniela mi sveglia, spaventata. Qualcuno sta camminando attorno alla nostra tenda gridando ripetutamente “venite fuori, ragazzi, o vi ammazzo, ho un’arma!”. E’ lui? E’ proprio lui! Ma che c… vuole! Rimaniamo in tenda, silenziosi e passivi, e anche un po’ preoccupati, ma preferiamo non dare ulteriore motivo di agitazione al personaggio. Così, dopo una decina di minuti di questa sceneggiata, il tipo decide finalmente di togliere l’assedio e di andarsene a fare (…) un giro con il suo camper. Era ora! Usciamo allora dalla tenda, saranno state circa le due di notte, e controlliamo che tutto sia in ordine, Motina compresa. Così ci accorgiamo che in questo teatrino, non siamo soli. Una coppia di ragazzi tedeschi, anch’essi nostri vicini, hanno condiviso con noi la stessa circostanza. L’ora è piuttosto tarda, ma nessuno di noi quattro ha intenzione di dedicarsi al riposo. L’amico, difatti, potrebbe tornare, magari ancora più alticcio e aggressivo di prima. Quindi, di comune accordo, decidiamo di chiamare il 911, sollecitando l’intervento della polizia. Di lì a poco arriva silenziosamente nel campeggio un’auto della pula. Senza tante formalità, il poliziotto ascolta la nostra esposizione dei fatti, e visitando il “luogo del crimine”, (un coltello c’era sul serio), ci invita ad attenderlo aspettando nuovi sviluppi. Nell’arco di un’ora, per ben due volte, rivedremo l’agente e quando tornerà la terza volta ci darà una notizia inaspettata: “abbiamo arrestato l’uomo del camper!” Ubriaco fradicio, il tizio ha minacciato con un coltello i clienti di un bar, e così si è fatto beccare. Anche questa, è fatta! L’indomani, il nostro amico camperista non è ancora rientrato nel campeggio (o uscito?), così decidiamo di partire sul prestino, prima di doverlo salutare. Torniamo alla normalità e ai nostri parchi da esplorare. Canyolands è lì a due passi, facilmente visitabile attraverso i suoi 32 chilometri di strada che lo percorrono. E’straordinariamente selvaggio con la sua varietà di paesaggi creati dallo scorrere del Colorado e del Green River. In ogni caso, per avere una panoramica completa di questo luogo, bisognerebbe poterlo osservare da un aereo, idea allettante ma per noi improbabile. Riprendiamo la Highway 191. Di giorno, in queste zone desertiche, il termometro può raggiungere anche i 40°C (o 104° Fahrenheit), ma, a parte questo, siamo contenti: la Motina gira egregiamente, il tempo si mantiene buono, la tabella di marcia è ok. Il solo rammarico, purtroppo, è di non avere a disposizione più tempo da dedicare a questi luoghi. Viaggiando verso sud, ad un certo punto, ci troviamo di fronte ad un paesaggio già visto, ma dove? Si, certo, nei film western! Si presenta cosi, all’improvviso quella che è la Monument Valley. Una striscia di asfalto (molto fotografata) (22) ci porta attraverso questa piana desolata di terra rossa, tra giganteschi monoliti di arenaria. Rallentiamo per il forte vento, ma anche per goderci questo magico spettacolo. I nativi, gli indiani Navajo, ci ricevono all’ingresso del parco. Siamo di nuovo in una riserva indiana, per cui anche il parco è autogestito. Non c’è la solita strada asfaltata, anzi, il percorso che lo attraversa è volutamente al naturale: una pista di sabbia (chiaramente rossa). L’idea di avventurarci con la moto carica sulla pista è tassativamente da scartare, perciò non capiamo immediatamente come faremo a visitarlo. Attorno al grande parcheggio in terra battuta ci sono una decina di chioschi e degli individui richiamano l’attenzione dei turisti: sono le guide locali. Parcheggiamo la Motina. A questo punto una sana contrattazione è quello che ci vuole. Stabiliamo con Michele, la nostra guida personale, il prezzo, la durata e il percorso del giro. Scorrazzeremo, nel cassone del suo pick-up, un improbabile GMC, per una quarantina di minuti, attraverso il deserto di rocce e sabbia della Monument Valley (23). Un fuori programma inaspettato che non dimenticheremo per lo spasso della corsa sul pick-up e il paesaggio davvero eccezionale. Riprendiamo la Motina più impolverata che mai, ma il temporale che ci aspetta di lì a pochi chilometri ci convince a fermarci in anticipo e trascorrere la notte in un Motel indio lungo la strada. Salassata da capogiro! Stimato il temporale in arrivo, però (in queste zone non c’è da scherzare), va bene così.
Pensando a qualcosa di grande, negli Stati Uniti, di sicuro ci viene in mente il Grand Canyon (24). E’ una considerazione esatta, ma se questo parco non lo si è visto realmente, a stento se ne possono immaginare le dimensioni. La sua estensione di 5200 chilometri quadrati (circa come la Liguria!) è frutto di un lento lavorio dal fiume più tumultuoso al mondo, il Colorado. Appena giunti all’interno del parco cerchiamo con impazienza i punti panoramici. Rimaniamo sbalorditi, quasi delusi, per non riuscire ad apprezzare a prima vista, l’immenso burrone che ci sta davanti. Sembra di stare sulla sommità di una montagna ad oltre 1000 metri di altezza, ed osservare la cima di un’altra a 20, 30 chilometri di distanza. Pare impossibile che un fiume, che da quassù ha un aspetto addirittura tranquillo, possa aver creato un tale sconquasso in questo altopiano, formando la più estesa gola della terra. Lasciamo l’Arizona e senza rendercene conto saliamo a 3000 metri nello Utah. Altre due tappe spettacolari si prospettano seguendo la statale 89: Bryce Canyon (25 e 26), e Zion Park (27). Molto semplici da visitare, questi parchi sono tra i più affollati d’America, grazie alle strade asfaltate che li percorrono. L’erosione, di neve e ghiaccio nel primo caso e di acqua nel secondo, ha creato un labirinto di migliaia di torri di pietra calcarea, sottili e appuntite, nonché strettissimi canyon che separano impressionanti volumi di roccia. Siamo in viaggio sull’Intestate 15. Nel tardo pomeriggio varcheremo il confine del Nevada per giungere prima di sera a Las Vegas. Certo, è successo ancora che qualcuno, dall’auto, ci saluti. In questo caso, però, dopo averci sorpassato, ci dà strada nuovamente, e così per ben due volte, sparendo dietro di noi. Procediamo comunque, ad andatura normale e, come d’abitudine, dopo un centinaio di chilometri usciamo dall’autostrada per una sosta rigenerante. Ci fermiamo in una piazzola e subito arriva anche il nostro riservato inseguitore. Don’t panic! Mezza età, stazza robusta, cappellaccio da cow-boy, camicia a scacchi e jeans, cintura e fibbia a mo’di patacca: tutto normale. Ecco quindi, svelato l’arcano: uno sfegatato Guzzista, incuriosito dalla moto e da una targa che non conosce. Scambiamo quattro chiacchiere sulle cinque Guzzi che possiede, sulla Motina, e sul nostro viaggio. E’ molto gentile con noi, tanto da proporci di essere suoi ospiti per la notte. Avremmo accettato volentieri; purtroppo abita ben oltre Las Vegas, e proprio la città del gioco è la nostra tappa successiva. Peccato! Nostro malgrado, dobbiamo rifiutare l’invito. Dall’amarezza di un altro incontro toccata e fuga, all’entusiasmo di essere alle porte di Las Vegas. Ecco, ci siamo veramente! Abbiamo deciso di trascorrere due notti in questa incredibile città. Piazzata la tenda, nel primo pomeriggio, ci buttiamo avidamente alla scoperta di Las Vegas blvd, il viale principale conosciuto come “the strip”. Incredibile! Ora siamo a Venezia, ora a Luxor, poi nell’antica Roma, St. Tropez, Moulin Rouge, un porto di pirati, Parigi, l’Enterprise. Centotrenta casinò-hotel, quasi tutti a tema, che rappresentano, pressoché in grandezza naturale, palazzi, monumenti, viali, situazioni, ambienti, molto spesso Europei. Nessuna descrizione rende merito a questo fenomeno; una città in mezzo al deserto, singolare ed eccitante, straordinariamente illuminata, che pulsa 24 ore su 24 al motto del gioco e del divertimento. L’indomani siamo ancora nella strip quando, all’improvviso, ci troviamo a fare i conti con la batteria della moto. C’è poco da discutere: un caldo feroce e un traffico infernale l’hanno messa ko. Nel giro di un’oretta, in ogni modo, risolviamo il problema grazie ad un concessionario Harley (non mancano) e a un ricambista.
La mattina seguente ci lasciamo alle spalle la città del gioco. La Death Valley è lì a poche miglia, ma di caldo ne abbiamo preso abbastanza tutti e tre, ed è meglio non esagerare. Nel 1972 nella valle della morte si è registrato un picco di quasi 100 gradi centigradi! E se questa fosse un’estate calda? Passeremo a sud, continuando sull’Interstate 15, entrando in California attraverso il deserto del Mojave. Procediamo spediti; tutto è in perfetta efficienza e acqua e benzina non mancano; niente ci può fermare…a parte quel dannato chiodo! La moto ondeggia un pochino sul posteriore. Penso, poco convinto: che sia colpa del carico? della strada? degli ammortizzatori? No! Abbiamo proprio forato. Ancora una volta è il caldo a riservarci una sorpresa: infatti, a causa dell’elevata temperatura, oltre alla foratura, anche la valvola si è disgiunta dalla camera d’aria e gira su se stessa. Per fortuna, una bomboletta spray miracolosa fa abbondantemente il suo lavoro. Siamo sorpresi del risultato, ma è meglio cercare immediatamente qualcosa che assomigli ad un gommista. Oggi è il nostro giorno fortunato e dopo soli tre tentativi, troviamo il posto giusto: Barstow. La cittadina è semideserta, e l’unico esercizio aperto in queste prime ore pomeridiane, è proprio un fornitissimo concessionario di moto che, in questa particolare giornata, festeggia i dieci anni di attività promuovendo una sorta di motoraduno. Ci accolgono con hot dog e limonata fresca (benedetta!), e anche se sono in festa, si affrettano ugualmente a ripararci il pneumatico. Mentre ci occupiamo della moto, arriva, per l’occasione, una stazione mobile di una radio privata locale.
Incuriositi dal nostro viaggio e divertiti per l’inaspettato incontro, ci intervistano.
Di questo incontro ci rimarrà un piacevole ricordo e anche, perché no, due belle T-shirt regalateci dal concessionario Barstow (28). Proseguiamo sulla 58, verso la Sierra Nevada, per il Sequoia N.P. (29) Lentamente, le calure dei deserti si attenuano, lasciando spazio alle temperature più miti della costa pacifica. Ieri, Las Vegas e le aride pianure; oggi, una foresta di giganti: i vegetali viventi più grandi e i più vecchi della terra! Le sequoie. Solo alcuni numeri: oltre 1000 anni di età, 100 metri di altezza, 10-12 metri di diametro (…). Siamo alle solite, gli Americani sono sempre esagerati! Credevamo ormai di non stupirci più di nulla, invece anche quest’ultimo parco ci lascia letteralmente a bocca aperta.
Distese sterminate di agrumeti ci accompagnano lungo la strada per San Francisco: ottime occasioni per uno spuntino a base di frutta. Scendiamo rapidamente dalla Sierra Nevada, e pure la temperatura scende, scende, scende, ma fa quasi freddino! 25-30° di escursione termica! Ma cos’è? Siamo ormai nella metropoli, il sole è scomparso e, in meno di mezz’ora, dall’Oceano è salita a vista d’occhio una nebbia improvvisa, come in un film di fantascienza, coprendo e ingrigendo tutto. Fa piuttosto freddo (non siamo preparati), quindi cerchiamo una pensioncina e la città la visiteremo domani.
San Francisco (30 e 31) si erge su una quarantina di colline e la sua struttura la fa sembrare ai nostri occhi una città quasi europea. Le strade assomigliano a delle montagne russe dalle pendenze incredibili, su cui si arrampicano regolarmente i caratteristici tram, simbolo della città. Visitiamo, tra l’altro, le case vittoriane dai tenui colori pastello e Alcatraz, ma non riusciamo a vedere il famosissimo e spettacolare Golden Bridge, completamente avvolto nella nebbia pomeridiana. Il fenomeno della nebbia ha dei tempi regolari: compare verso le 5-6 del pomeriggio e si ritira verso le 10–11 del mattino. Sono trascorsi un paio di giorni ed è ora di riprendere il viaggio. Usciamo dalla metropoli sperando che la foschia sia un problema circoscritto alla città, invece è ricorrente per molte miglia lungo la costa Californiana (32). Una puntatina alle bellissime cittadine di Monterey (con il suo stupendo Aquarium) e di Carmel percorrendo la 101 verso sud, in direzione Los Angeles, la nostra meta finale. Ora va molto meglio: la nebbia e con essa il freddo sembrano essere spariti; forse è questo il rinomato clima della California! Troviamo posto nel campeggio presso Santa Barbara, il più vicino possibile alla città. Los Angeles, oltre al suo ottimo clima, dispone di tutte quelle attrazioni turistiche come: Hollywood, Universal Studios, Beverly Hills (33), Belair, S.Monica, Malibu, Venice (34) e molto altro. Una Metropoli multietnica di dimensioni spropositate (100 km di costa!), difficile da visitare in poco tempo, ma anche tanto vivace e animata da rendere difficile il separarsene.
Il viaggio, durato trenta giorni, attraverso l’America, sta per giungere al termine. E’ strano, realizziamo solo adesso di aver portato a compimento il nostro sogno americano, senza quasi rendercene conto. E’ stato tutto molto veloce, troppo veloce!
Penultimo giorno: il nostro spedizioniere ci attende. In un magazzino vicino all’aeroporto internazionale, ritroviamo, smontata, la nostra cassa metallica per l’imballo. Quattro ore di lavoro filato per allestire il pacco (cassa con moto e bagagli), destinazione Malpensa. Non ci sono più dubbi, si torna a casa! Mi aspettano tre settimane di riflessioni in attesa di rivedere la mia Motina (e la sua coppa dell’olio sempre a tre centimetri dal pavimento!). Domani mattina l’aereo ci riporterà alla realtà. Nel frattempo, godiamoci questa ultima notte in … hotel California.