di Claudio Giovenzana
Sono da ore su una sedia senza ruote e senza motore. Il tempo è adatto a sedimentare pensieri e riprendere il filo con gli ultimi scritti. Giorni seduto nella sedia dello stesso bar dove mi sono guadagnato il diritto di entrare ogni mattina e chiedere “il solito”: una tazza di caffè e un pezzo di torta che se va bene mi aspetta da solo un giorno, se va male anche da un paio. La cameriera dice ad alta voce il prezzo per farsi sentire dal titolare ma poi mi fa segno con le dita qual è il “prezzo amicizia” che le devo. Altro piccolo traguardo dopo aver fatto amicizia parlando spagnolo.
Le chiacchiere diventavano spesso discorsi con la focale aperta sul mio viaggio di lungo raggio e sul suo, forse molto più avventuroso, che iniziò varcando la frontiera con gli States un anno prima. Ascolto così un’altra storia di ricerca della felicità, un altra fuga semicosciente verso un futuro migliore che porta i doni della novità e dell’opportunità ma che costa il distacco dalle proprie radici. Cominciò un lunedì quando il fratello che viveva con lei in Messico le offrì l’occasione di andare con lui negli States. Si trattava di un “biglietto di sola andata”, a piedi e senza documenti, cercando di varcare uno dei confini più controllati del mondo. Un confine chiamato “la Grande Cicatrice” sulla quale vengono uniti, con una chirurgia da dottor Frankenstein, due mondi troppo diversi. Lacrime e panico, una indecisione talmente pesante da non poterla sopportare sulle spalle, la fatidica partenza era fissata soltanto due giorni dopo. La decisione di partire le venne come un singhiozzo dopo i tanti dei giorni fatti a piangere e riflettere con la valigia mezza piena e mezza vuota che aspettava il verdetto. Iniziò la marcia nei boschi e nelle montagne, di notte, correndo e sostando per ascoltare i rumori tra i cespugli. La paura di essere scovati e i ripensamenti mentre l’ipotermia iniziava a strisciare su dai piedi e il fratello si svestiva per coprirla e le massaggiava le gambe. Arrivò a San Francisco con un dollaro, un fratello e una sola lingua, quella sbagliata. Ci volle tempo.
Adesso lavora, non può ancora permettersi un’assistenza sanitaria ma può permettersi di sorridere e di avere nuovi amici intorno. Io sono uno di questi, l’ultimo arrivato. Mi dà il numero di suo padre e mi promette che lui mi ospiterà a Tijuana quando varcherò la frontiera messicana. Tijuana, in una famosa canzone, fà rima con “alcooldrogasessoemarijuana” e probabilmente anche con tutto il corollario di malavita e povertà che cinge il suo grande centro. Ora che ho la promessa di un tetto e un luogo dove parcheggiare la moto posso pensare di adottarla come meta futura, almeno per un pò. Questa città è la rampa di lancio per 10.000 messicani che ogni anno si preparano a lanciarsi oltre la frontiera con gli States.
Ma torniamo a San Francisco, alle strade pazze dove passeggiamo con la macchina fotografica nascosta cercando di sfuggire agli sguardi di giocolieri, mercanti e artisti. Allegria e festa intorno al porto, marmaglia di gente che serpeggia sullo “shore” vicino all’oceano e vicino ai gabbiani che si fanno avvicinare sino alla distanza di un braccio prima di scappare. Ci troviamo un posto al chiuso, un tazza di caffè e due sedie imbottite, il tempo di raccontarci un pò ancora e poi via di nuovo tra la folla cercando di avvistare le chiatte sulle quali le foche si sdraiano a prendere il sole. Torniamo con il pullman su fin sopra alle colline, lontano dalla “downtown”, diventa buio. Ogni pullman di San Francisco mostra chiaramente il mix di culture e razze che ha reso famosa la città: afro, chino, italo, latino sono solo alcuni strati etnici che animano i quartieri. Seduti sulla panca sentiamo urlare 5 metri dietro di noi: due stanno litigando, vengono alle mani, la gente è paralizzata, il pullman si ferma il mio sguardo cade sulla ringhiera che chiude il pilota nella sua piccola cabina. Si apre di colpo come fosse la mezza porta di un Saloon dei film western e ne sbuca fuori una donnona di colore di 100 Kg, si piazza in mezzo al corridoio passeggeri e con una voce tipo Aretha Franklin urla: “c’è qualche cazzo di problema li in fondo ah? Portate il vostro culo fuori da qui che chiamo la polizia”
Adesso dopo averla vista sono terrorizzato anche io pur essendo dalla parte dei “buoni”. I due si defilano immediatamente e magari diventeranno anche amici accomunati dall’esperienza con la temibile autista. La donnona riprende il suo sedile, scuote la testa e dice a bassa voce, quindi che possiamo sentirla solo fino a metà pullman, “fanculo”.
Arriviamo e la mia amica mi invita a seguirla in un locale “particolare”, perchè no… Appena entrati vengo abbracciato da un signore con uno strano accento portoghese che mi grida in spagnolo “Dio ti ama” “..ah” “Dio ti benedice” “ah..che devo fare?” “Entra e canta”. Sono approdato a una comunità cristiana apostolica di portoghesi; la gente canta con le mani alzate, io rimango a custodire il mio angolo semipartecipe ma ad ogni modo incuriosito, in questo luogo non ci sono bisbigli e genuflessioni ma chitarra acustica e batteria, persone in piedi che dondolano nella musica con gli occhi chiusi. Arriva il momento della predica e mi trovo la mia amica a tradurmi dal portoghese in spagnolo nell’orecchio sinistro, nel destro c’è la vicina di sedia che aggiunge in inglese alcuni dettagli per farmi capire il libretto che tento di decifrare. Dopo 45 minuti sono esausto, ho perso la mia lingua madre e chiacchierando in strada mescolo spagnolo e inglese come fossero un nuovo Esperanto. Conosco così il Ministro di questa chiesa apostolica, il secondo dall’inizio del viaggio, questo non sembra fumarsi marijuana come l’altro ma è anch’egli gentilissimo, amichevole e accogliente. Mi racconta del Brasile, della strada che dovrei percorrere per attraversare centinaia di km di foresta amazzonica.. poi mi da del pazzo con una pacca sulla spalla e infine mi benedice e invita a visitare la sua terra.
Il giorno dopo mi dirigo alla comunità “figli di Italia” giusto per salutare qualche connazionale, suono e arriva una giapponese che mi reindirizza “all’associazione italiana” di via russia. Ci vado, entro e chiedo “C’è qualcuno che parla italiano?” “No”.
Non importa, parlo con il cuoco in inglese, mi racconta la storia della loro associazione, di italiano ci sono i piatti di pasta e le memorie dei loro nonni e bisnonni arrivati in America ad inizio secolo. Ma l’idioma si è perso nel tempo, qualche parola è resistita alle censure dei loro padri che li rimproveravano quando sentivano che tra di loro “non si sforzavano di parlare la lingua del luogo”.
Sulla parete ci sono i quadri con i nomi di tutti i membri dell’Associazione, sono pittoreschi perchè associano nomi americani a cognomi italiani, sembra di leggere i titoli di coda di un “mafia movie”. Dal cuoco passo a parlare con Marco e da Marco alla sua intera tavolata dove vengo accolto da brindisi con calici di vino, bene. In un momento di silenzio Marco prende la parola e dice “Non abbiamo abbastanza soldi per offrirti da mangiare perchè li abbiamo investiti in stock dell’Alitalia”. Scoppio a ridere con tutti i commensali. E’ stata una piacevole, finta, re-impatriata all’italiana, chiacchiere, sorsi di vino e racconti tra le nostre due nazioni amiche. E’ il mio turno di parola, inizio ripetendo quasi a memoria i primi 10.000 km di strada, il Canada e le frontiere, i miei viaggi in Centro e Sud America come “backpackers” e ora la nuova attraversata da confine a confine su gomma, con il mio “ferro”..ecc..ecc. Poi entriamo nello specifico, recupero un dettaglio non trascurabile: “la felicità”. Spiego il progetto del viaggio e l’intento di raccogliere storie che possano disvelare le forme culturali o soggettive di questa strana parola, felicità, che tutto e niente può indicare ma che spesso è molto più presente nei copioni di vita delle persone di quanto non lo sia in quelli di Hollywood. Cosi il viaggio da frontiera a frontiera diventa anche un viaggio da storia a storia, da “history a history” ma anche da “story a story”.
“Sounds good” dice uno di loro e dopo poco mi passa per telefono una giornalista americana di San Mateo che mi intervista per 10 minuti. Finita intervista e pasta lascio l’associazione con la pancia piena promettendo a tutti che sarei passato a salutare prima di lasciare la città. Torno dal pastore della chiesa apostolica a salutare anche lui, ma non ho scampo, un attimo dopo essere entrato inizio ad attaccare bottone prima con i suoi amici e poi privatamente con lui, seduti come commilitoni sui gradini di quello che costituisce il loro spartano altare di fronte a un centinaio di sedie vuote.
Mi da il suo numero di telefono, la mail e inizia a disegnarmi su un volantino della sua associazione una mappa geografica del Brasile, mi spiega dove passare via terra e dove no, come comportarsi con un anaconda e come non sottovalutare un piranha lungo anche solo 5 cm. La “carretera” dal Venezuela infatti entra nella foresta amazzonica per mille km prima di incontrare una strada asfaltata percorribile. Tengo a mente tutto e quello che la mente non tiene viene appuntato sul foglietto patinato che inizia a riempirsi di sagome dei paesi sudamericani.
Non so grazie a quale calamità naturale o psicologica ma ogni posto che vado è una religione che trovo, cosi è stato a Cuba quando mi trovai “scelto” da un Santero per una cerimonia in mezzo a un cerchio di 30 persone in una periferia di Santiago, così è stato in Africa quando sono stato ospitato da due donne musulmane e ancora a Thunderbay, in Canada, nella casa del Ministro che cercava di dimostrarmi come un versetto della Genesi contenesse un invito al consumo di marijuana.
Be, parlando di felicità il pastore mi consegna gli indizi per una bella storia.
Ho solo un nome parziale e con questo inizio le mie ricerche su internet, dopo aver sfogliato pagine finalmente trovo quanto cercavo:
La storia del Team Hoyt.
Dick Hoyt si accorse presto che suo figlio nascituro aveva qualcosa che non andava, i medici diagnosticarono un problema cerebrale dovuto a una carenza di ossigeno; il destino per la medicina era segnato e alquanto negativo. Il padre però non si rassegnò a lasciarlo in un istituto, lo prese con sè e inizio a costruirgli un interfaccia per comunicare attraverso un computer con i movimenti della testa. Dopo anni le prime parole digitali di Rick, dopo aver visto una partita di hockey, furono “Go!!”. Dick prese questo come un segno della predilezione del figlio per lo sport e iniziò a portarlo con sè nelle sue sessioni di jogging spingendolo sulla carrozzina. L’allenamento e la passione crebbero, Rick attraverso il computer diceva che “anche se sono disabile correre con mio padre mi fa sentire vivo”, iniziarono le prime gare, le prime lunghe distanze. Il padre spingeva la carrozzina del figlio per miglia e miglia, lo portava su una bicicletta speciale per partecipare alle gare di Triathlon e lo trainava in un gommone legato alle spalle quando nuotava. Nel 1992 percorsero insieme 3.735 miglia tra bici e corsa lungo gli Stati Uniti per 45 giorni, ad oggi hanno partecipato a 229 Triathlon e 66 maratone. Quando chiesero a Rick cosa avrebbe voluto regalare a suo padre rispose “vorrei far sedere mio papa sulla sedia e spingerlo almeno una volta”.
Archivio mentalmente questa storia insieme a quella di Terry Fox, Ken, Maureen e Sue che vi ho raccontato nei post precedenti. Interessanti le cose che le persone fanno per cercare la felicità vero?