di Marco Melillo
Duecento chilometri.
L’idea era quella di viaggiare, partire in macchina per un secondo tour in mezzo alle colline senesi, e dare il via ad una nuova avventura sulla via del ritorno. L’idea. Di fatto qualcosa si è modificato in corso d’opera, di quell’idea. E quel che ne è rimasto, ora, è quanto segue.
Un acquisto sconsiderato in periodo di crisi, un amore ai tempi del colera. un Guzzi Nevada 750 del 1991, con quarantanovemila chilometri sul groppone. e millecinquecento euri in meno sul conto.
L’idea del viaggio, dicevo, cambia non appena si monta in sella. E si monta in sella con una mezza sfida di tornare a casa da Arezzo, i duecento chilometri di cui sopra, dopo una sola prova su un Guzzino 350 al piazzale dei macelli, a Piombino, qualche giorno prima. Si parte, per fortuna, anche col supporto logistico e spirituale del Carlone, addetto al riportaggio della macchina a casa, alle indicazioni di viaggio, alle dritte in fase di guida, e a sopportare le mie inevitabili, numerose soste, previste e non. La lezione essenziale del primo giro si era limitata a come-si-cambia come-si-frena come-si-curva, e fondamentalmente sembra essere tutto.
In verità il primo approccio, a Arezzo, è con un cilindro che non vuole andare, un’accensione che sembra dare problemi, un tentativo (fallito) di partire a spinta. Poi, tra moccoli e magie, sempre col supporto impagabile di Carlo, è andata. Non mi chiedete come o perché, a un certo punto mi sono quasi convinto che ci avesse parlato, con la moto! Fatto sta che è andata.
Si parte, ovviamente, col cielo grigio topo che minaccia acqua: d’altra parte ho scelto io di andarmela a prendere a novembre. E si viaggia non sapendo la strada, fortunatamente guidati fino a fuori città dal vecchio proprietario che ci accompagna fuori dal delirio aretino per percorsi meno battuti.
Comunque, arrivati alla prima strada umana riconoscibile e ottenute le indicazioni, un saluto, una sosta per abbuffarsi e si riparte. Si scolletta a Civitella Val di Chiana, e solo dopo, guardando la cartina, mi rendo conto di che diavolo di strada abbiamo preso. Almeno ho rispettato le prescrizioni del foglio rosa, di certo non era troppo trafficata. Le sensazioni del primo momento sono strane, comunque. Mi sento teso ma divertito, insicuro ad ogni curva, e di fatto l’idea del viaggio passato a rimirare il paesaggio, a godersi gli odori della campagna in inverno, svanisce non appena scollettato. Devo stare attento alla strada, devo pensare alla guida, e l’unica distrazione che mi concedo è quella di ascoltare il motore ad ogni cambiata, per provare a impararlo.
Il resto sono curve a velocità da bradipo, una strada infilata per sbaglio che mi avrebbe portato chissà dove, poi l’immissione in quattro corsie. Lì, l’unica eccezione alla mancanza di occhio per tutto quello che non è la guida: arrivati quasi a Grosseto, complice la stanchezza che a distanza di tre giorni avrebbe continuato a pesare sulle braccia, si fa largo il bisogno di una nuova sosta, a riprendere fiato. E mi maledico per non avere con me la macchina fotografica, in mezzo alle colline, mentre il sole si va a spengere in un mare che sta là dietro, che c’è, anche se si riesce solo a intuirlo.
Pochi minuti, prima di rendersi conto che se sta tramontando è meglio muoversi. E’ meglio evitare di trovarsi su una strada che non conosco, su un mezzo che di fatto non so ancora guidare, di notte. Ovviamente le considerazioni arrivano tardi. Pochi chilometri prima di Grosseto è già buio pesto, e alla tensione che sale va anche a aggiungersi un anabbagliante bruciato mentre ormai siamo in vista di Follonica. Il panico vince sull’idea iniziale di rimanere solo visibile con le luci di posizione, e ci metto un attimo a sparare gli abbaglianti in faccia a tutti quelli che incrocio. Mi avranno odiato, probabilmente. Ma almeno ce l’ho fatta ad arrivare incolume alla Venturina, cambiare il faro da Paparo e ripartire verso casa senza aver tirato a dritto neanche in una curva, scampando alla pioggia, dopo aver salutato e ringraziato Carlo, ovviamente mai abbastanza.
Duecentonove chilometri. Niente rispetto ai resoconti di viaggi infiniti verso il nordeuropa, ai racconti di curve improponibili e paesaggi da lacrime. Ma sono i miei primi in sella alla moto: un banalissimo viaggio di ritorno da Arezzo a Piombino in mezzo ad un paesaggio alla fine abbastanza familiare, durante la stagione più brutta in cui lo si può vedere. Ma è il mio piccolo primo viaggio, e mi andava di condividerlo. Provare a raccontarlo per quello che è stato, e pensare di scrivere di quel che sarà.