di Lupastro
Il troppo sdoppia. Mi riferisco all’alcol ovviamente, e le due ruote non è che siano di grande aiuto, anzi, già mantenerle l’una davanti all’altra pare cosa impossibile….. Per fortuna Calispera conosce la strada e dolcemente mi accompagna cullandomi nel rollio dei pistoni, mi coccola garbatamente trovando traiettorie inimmaginabili tra la nebbia della mente. Il lampeggiare delle frecce, in verità un po’ tardivo, pare il disegno d’un fuoco d’artificio, la bizzarria pirotecnica di un artigiano partenopeo. Dietro il muretto, troppo vicino ai pneumatici, si apre il golfo di Sorrento, davanti a me, ritto e perentorio, il passo dello Stelvio.
Sotto le ruote il duro asfalto e sopra al cupolino la vastità delle stelle, lacrime brillanti, diadema eccentrico mollemente indossato da un cielo nero come il carbone.
Sento una mano percorrermi l’esofago in senso contrario, il rigurgito acido sale i condotti e temo voglia spandere nel casco liquidi salmastri. Trattengo prima il fiato per alcuni secondi e poi sfogo l’impellenza in un rumore assordante, fortunatamente è solo gas che appanna la visiera, un odore acre che pervade l’intercapedine. Devo stare attento se la strada è dritta per troppo tempo credo di potermi addormentare mentre un dubbio mi corrode da alcuni kilometri, temo di aver dimenticato le dita della mano sinistra sul tavolo dell’osteria. So di riuscire a tirare la frizione ma non so come succeda, non sento le dita dentro al guanto, neppure un formicolio….niente, la stessa sensazione provata lustri indietro dopo un robusto tè all’afgano nero, il braccio destro mi si nascose per tutta la notte, “inutile cercarlo – mi disse Asfodeo per tranquillizzarmi – vedrai che quando è stanco torna a casa da solo”. Asfodeo era mitico per alcuni, un coglione per altri, aveva iniziato a stare sui motorini ancora prima di camminare, si narra che la madre lo allattasse a benzina, se lo attaccava al seno che profumava di Castrol e lo teneva a ciucciare per ore con lo sguardo fisso su un calendario tette, culi e bronzine appeso alla parete. Il garage di Toni, il moroso della madre, era la loro casa ormai da tempo immemorabile , ancor da prima del grande sfratto, credo. Divenendo grande Asfodeo iniziò a masticare pezzetti di camere d’aria e, mentre i suoi amici si facevano di colla e mastice, lui sniffava ottani tagliati con acetone alla nitro. Quando era in vena di stramberie prendeva pistola e compressore poi, dopo aver riempito il serbatoio di sverniciatore sparava a raffica bordate contro gli scootter che parcheggiavano davanti al garage. “Odio Vespe e Lambrette” – amava ripetere mentre le colpiva con il cric del camioncino, ma questa è un’altra storia ed è troppo tardi per raccontarla, e poi, in fondo penso non interessi a nessuno, me la tengo per un’altra volta.
Intanto stento a ritrovare anche le dita della mano destra, fortuna che riesco uguale a dosare il gas. Mi domando dove vada a nascondersi il filo dell’acceleratore quando scompare sotto al serbatoio, domani chiamo Murry o Ube e glielo chiedo, adesso è meglio non porsi troppe domande considerate l’ora e il freddo cane che fa.
Minchia ce li ho dietro. Vedo le luci blu roteare sul tetto della macchina dentro allo specchio retrovisore, sono ancora abbastanza lontani, forse riesco a trovare una tagliata prima che mi raggiungano. Cazzo mai un merdoso svincolo quando serve, mi accontenterei anche di uno sterrato, un sentiero, una mulattiera. Se questi mi beccano e mi attaccano all’etilometro mi sparano lì sul posto poi sputano sul mio cadavere, ho sentito parlare di carabinieri e poliziotti che uccidono i motociclisti solo guardandoti negli occhi, è per questo che è sempre meglio indossare occhiali scuri alla guida della moto.
Ecco il biancore di uno sterrato dietro al cipresso sulla mia destra, la curva è stretta ma se riesco a schivare l’albero e derrapo mollemente quel tanto che basta per imboccare il cancello m’infilo dritto come una supposta. Cacchio che comparazione infelice è come se avessi il sentore di infilarmi nella merda, ma il mio non è un eufemismo è proprio merda, è un letamaio e io ci sono dentro a mezza ruota. Il motore fa bloff, la ruota posteriore ruota sul posto e solleva schizzi di caccole e sterco, pianto giù i piedi e lo scarpone scompare nel magma, non fosse per la puzza penserei alle sabbie mobil, forse è qui che hanno girato Anacondai. Probabilmente avrei fatto meglio a dar retta a Bombos e a rimanere chiuso in casa stasera, d’altronde se io dessi retta a Bombos avrei già montato i semimanubri sul Cali, quindi lasciamo perdere.
Fortuna che il contadino ha il vino buono, ho dovuto comprargliene due damigiane per ripagarlo della tirata col trattore. –“Domani torno con la macchina e le vengo a prendere”- il villico mi guarda sorridendo, l’ho fatto felice erano anni che non vedeva una Guzzi – “Sa da giovine avevo un Falcone, poi l’età, la moglie, una cosa e un’altra…….”
Mi allontano, puzzo come un suino, il Cali puzza, se aspiro forte quasi quasi mi accascio come Dida e vomito al bordo della strada, d’altro canto se non ho vomitato fino ad ora perché dovrei farlo nei prossimi minuti? La domanda è interessante, ci penserò sopra.
Riprendo la strada, tutto è come prima, il cielo le stelle, i brillanti e tutte quelle puttanate che ho descritto prima., i vapori dell’alcol iniziano a defluire, meglio trovare un letto prima che svaniscano completamente, la notte è ancora giovane, io e il Cali molto meno.