di Nonnoenio2000
Quando i ricordi si allungano nel tempo.
La mia casa era l’ultima della via, una via ovviamente non asfaltata. Poco più in là quella strada si trasformava in un sentiero che si infilava fra i canneti e conduceva al greto del fiume. Sul fondo di ghiaia di quella strada noi ragazzini giocavamo a pallone oppure a “pindolo”, un gioco strano a metà fra il baseball ed il tiro a segno. Avevo forse dodici anni e la guerra era finita da un decennio ma ancora si avvertivano le sue conseguenze. Soprattutto nella disponibilità di denaro. La certezza di uno stipendio regolare rendeva
benestante, nella considerazione dei vicini, anche la famiglia di un operaio ferroviere ma, se si saliva un po’ nella scala delle professioni, le differenze di reddito familiare diventavano spesso barriere insormontabili. Per molti di noi le due ruote della bicicletta erano l’evasione dal quartiere: ci facevamo anche trenta chilometri in un pomeriggio pedalando su bici pesanti e dure pur di avventurarci sulle colline e in mezzo alla campagna. Giocavamo a pallone sulla ghiaia, come ho detto, e nessuno voleva –
comprensibilmente – fare il portiere: chi poteva essere tanto incosciente da tuffarsi su quel letto di sassi aguzzi per evitare un gol?
Quell’incosciente, con le ginocchia eternamente sbucciate, chissà perché, ero io, anche se, a volte, mi distraevo e Giancarlo mi infilava un gol approfittando del fatto che la mia attenzione era stata deviata dal rumore di un motore. Il dottore che abitava nella villetta d’angolo aveva un “Galletto” ma non era quello il rumore che mi faceva scattare qualcosa dentro: troppo modesto, troppo educato. In fondo il “Galletto” era una moto da famiglia; unica moto ad avere la ruota di scorta così che ci potevi portare la moglie (o la fidanzata) e non rischiare di restare per strada per colpa di una banale foratura. No, quello che mi faceva girare lo sguardo di colpo era ben altro rumore. Pochi anni prima sarebbe stato il battito rallentato di una moto massiccia, enorme, abbandonata da qualche militare americano magari perché sembrava troppo difficile da riparare, abbandonata chissà dove e recuperata chissà come dal cugino di Giancarlo.
Quando la tirava fuori dal cancello di casa noi bambini ci fermavamo a rispettosa distanza, guardando con una punta di timore la testa piumata dell’indiano applicata sulla punta del parafango anteriore, e non ci perdevamo un solo attimo del cerimoniale della messa in moto: la regolazione della levetta dell’anticipo, il “cicchetto” al carburatore, un paio di giri a vuoto della pedivella con il “clic – clic” del ritorno e poi quel gesto che ci era diventato così familiare e sembrava quasi un momento di un balletto: quel salire in alto di tutto il corpo, appoggiato su un solo piede alla stessa pedivella, per poi scendere con forza mentre il primo tossire della marmitta ci teneva con il fiato sospeso. Si sarebbe trasformato, quel tossire esitante, nel pulsare regolare oppure si sarebbe spento quasi con un sospiro di rassegnazione?
Il più delle volte ci nasceva un sorriso a sentire la macchina che prendeva vita e rimaneva lì, col suo “tunf – tunf” in attesa che il cavaliere si riparasse il volto con gli occhialoni e poi salisse in sella. Ma questo accadeva anni prima. A dodici anni l’Indian era sparita, finita chissà dove insieme al cugino di Giancarlo ed il rumore che mi faceva distrarre era ben altro. Non era più il pacioso, cupo battito del bicilindrico americano e non era ancora un ruggito ma aveva una tonalità più secca, più grintosa. Lo si sentiva arrivare da lontano e cresceva man mano che si avvicinava. E poi, di colpo, eccola lì che ti passava a poche decine di metri e facevi appena in tempo a cogliere una visione fugace del motociclista leggermente chinato in avanti con le mani strette sulle manopole ed i capelli scompigliati dal vento. Non era la figura avvolta da un lungo pastrano con la sciarpa avvolta intorno al viso e svolazzante sopra le spalle che Fellini avrebbe più tardi trasformato in una icona in “Amarcord”.
No. Questo aveva una giacca di pelle nera ed un fazzoletto che gli copriva il viso fino al
naso. Ma poi che cosa importava sapere chi fosse o come si vestisse? Quello che importava era che, in basso, di fianco al motore ci fosse quell’enorme disco del volano, rosso e cromato – scherzosamente chiamato l’affettatrice – che girava vorticosamente. Ma soprattutto importava che sul serbatoio ci fosse quell’aquila con le ali spalancate, la stessa aquila che campeggiava sulle carene che vincevano il mondiale in quegli anni. Pochissimi anni dopo, insieme al misterioso motociclista che passava così spesso in quel quartiere, avrei tradito quell’amore per l’aquila e l’avrei sostituito con i due cerchi legati dalla scritta “Gilera”.
Ma come si faceva a restare indifferenti al ringhio di quel motore stranamente battezzato col nome di un satellite lontano e silenzioso: Saturno? L’aquila, improvvisamente, sembrava avere ripiegato le ali incapace di fronteggiare le vibrazioni di quel suono prepotente. Ed anche in pista ormai c’era ben poca gloria da raccogliere. Le immagini di quegli anni erano sempre le stesse: il “Duca” Jeoffrey e Libero Liberati affiancati nella piega di una curva, le carene quasi a contatto, a giocarsi la vittoria. E su quei gusci a forma di uovo, al posto dell’aquila c’erano quei due cerchi parzialmente sovrapposti. Più tardi la passione fu assorbita dal dualismo Benelli-MV abbinato a quello Paso-Ago e l’aquila sembrava essere definitivamente sparita. Ma il seme guzzista piantato nella mia infanzia aveva evidentemente una scorza non indifferente. Un giorno d’estate, alla fine degli anni ’60, l’amico Luciano un giorno mi arriva in sella ad un V7 bianco e lì la vecchia attrazione si rivela fatale. Mi è toccato aspettare un bel po’ di anni prima di poterla soddisfare – all’inizio del 2000 – ma, in fondo, gli amori facili durano poco. Ed invece credo proprio che quella creatura nera coi filetti bianchi che, fra qualche settimana, nel mio garage, sostituirà quella rossa e nera del mio ritorno sotto l’ala dell’aquila, troverà un compagno fedele dispostissimo a soddisfare la sua voglia di chilometri di asfalto, in sole e pioggia, in freddo e caldo finché ……………… la vecchiaia non ci separi.