Come sono diventato Guzzista?
(mettetevi comodi, è un po’ lunghetto)
Un bel giorno dei primi mesi del 1994 mio fratello, che non appoggia il suo sedere su una moto da almeno 15 anni, si presenta a casa mia a cavalcioni di un qualcosa che a primo colpo d’occhio mi appare come un largo, pesante, sgraziato e rumoroso bovino nero.
E’ in realtà una Moto Guzzi IdroConvert 1000 del ’75 avuta come sconto sull’acquisto di un’auto fuoristrada nuova da un concessionario che probabilmente l’aveva sul gobbo da mesi e che non sapeva come disfarsene.
Formulo immediatamente tre ipotesi sul fatto che abbia accettato quella “cosa” al posto dello sconto:
A) Rivendita immediata al primo tedesco di passaggio (memore del mio vecchio Morini) con conseguente guadagno economico
B) Necessità impellente, per motivi a me sconosciuti, di occupare parte del suo box con un ammasso di 240 kg di metallo vario semi grezzo
C) Colpo di sole improvviso
Niente di tutto questo; lui intende veramente usarla e non solo, anche mia cognata non vede l’ora di accompagnarlo come convintissima passeggera.
Le mie conoscenze della Moto Guzzi, si fermano alle moto della Polizia o dei Vigili Urbani che incrocio per strada e alle foto in bianco e nero di Falconi, Galletti e volatili vari che si vedono ogni tanto in qualche articolo dedicato alle moto d’epoca.
Anche per questo, con l’andar del tempo rimango sempre più stupito da come quell’obsoleto Guzzi vecchio di quasi 20 anni attiri l’interesse della gente, mentre il mio Transalp parcheggiato a fianco non venga degnato di uno sguardo.
Per me è una cosa inspiegabile e dato che le cose inspiegabili hanno il potere di affascinarmi e contemporaneamente farmi incazzare proprio perché senza spiegazione logica, comincio a “analizzare i dati in mio possesso” (eufemismo per: “Fermi tutti! Cos’è sta storia?”).
La prima cosa che noto è il grande numero di raduni Moto Guzzi elencati nelle pagine dedicate delle riviste specializzate e la seconda è che questi raduni sono organizzati praticamente in ogni continente. Come mai tutto ciò?
Provo cautamente a guardare quelle moto sotto un punto di vista differente, che esula da grafici, cifre, misure e prestazioni, iniziando ad apprezzare la sensazione di solidità e sicurezza emanata da quell’incedere poderoso ma nel contempo leggero.
Non posso fare a meno di notare che le Guzzi hanno effettivamente una loro personalità; le riconosci a distanza, con quei due cilindroni a V, che quando le incroci sembra che ti dicano: “Io ne ho due, grossi così, e non ho intenzione di nasconderli”.
Mi scopro stranamente passivo nel farmi conquistare dall’inconfondibile rombo di quel motore instancabile; sembra che le Guzzi vogliano trasmettere un messaggio a chi sta loro in sella: “Non preoccuparti, ci sono qua io”.
Mi trovo a considerare il mio Transalp solo come un mezzo di trasporto che serve a portarmi da un punto A ad un punto B; praticamente un’auto a due ruote, nulla più.
Mi sto rendendo conto che la malattia comune a tutti i Guzzisti del mondo e che li rende tali spesso per tutta la vita, sta entrando in me ed io, per la verità, sto facendo poco o nulla per impedire che ciò accada.
Probabilmente stimolato a livello subconscio da questo progressivo spostamento emotivo verso le Moto Guzzi, il mio cervello fa riaffiorare alla memoria, come in una specie di flash-back, un piccolo episodio ormai dimenticato accaduto tanti anni prima.
Mi rivedo ragazzino, nella prima metà degli anni ’70, col cono gelato da 50 lire che mi cola sulle mani, in sbigottita ammirazione davanti ad una grossa moto tutta lucida, nera e cromata, parcheggiata fuori dal bar vicino a casa mia; è una Moto Guzzi V7 California 850, seppi poi, veramente enorme e fantascientifica, un vero spettacolo, abituato come sono a considerare moto “vere” persino i Ciao e i Garelli 50cc che furoreggiano tra i ragazzi con un anno o due più di me (beati loro, già quattordicenni).
Rimango fulminato e imbambolato a guardare quello scintillante monumento meccanico a “rispettosa” distanza (praticamente col naso appiccicato al serbatoio), fino a quando il legittimo proprietario, un omone con barba e capelli rossi che abita nel quartiere, ci monta sopra, la mette in moto premendo quello strano tasto nero sul manubrio (magia) e, con un rombo fortissimo che mi risuona dentro, sparisce in direzione del centro.
E’ il ricordo di un episodio che, inconsciamente, era stato rimosso ma che ora, come i due pistoni che ricevono dopo tanto tempo la spinta esplosiva della miscela aria-benzina innescata dalla scintilla delle candele, riprendono a scorrere alternativamente sempre più velocemente, coinvolgendo inevitabilmente nel loro movimento le bielle, gli alberi e gli ingranaggi del mio intimo più profondo.
Comincio, dapprima timidamente e poi sempre con maggior confidenza, ad approcciarmi da “esterno” (dopotutto possiedo una moto giapponese) al mondo Guzzi, informandomi su riviste e libri riguardo la storia ed i modelli del marchio; scopro l’inizio pionieristico, i campionati del mondo vinti a decine, le forniture alla polizia americana sbaragliando la concorrenza delle marche più importanti; e chi se lo sarebbe mai immaginato?
Nel frattempo un pensiero si sta facendo ogni giorno sempre più assiduo: possedere ora, da uomo, quella moto che mi aveva così colpito da ragazzino.
Comincio a passare al setaccio gli annunci delle occasioni di tutte le riviste di moto che trovo in edicola, fino a quando, dopo lunghi mesi di ricerca senza trovare nulla riguardo a quel modello specifico, eccone uno che recita: “Vendo Moto Guzzi V7 California 850, anno 1973, buone condizioni, ecc. ecc.”
Il prezzo sembra essere nella media, ma ho velocemente imparato che nel mondo delle moto classiche la richiesta economica spesso e volentieri non è legata al reale stato della moto, e che la frase “buone condizioni” può volere dire tutto o niente.
Prendo contatto col venditore e ci vado il sabato successivo per vederla.
La moto è di proprietà di un appassionato bresciano con troppe moto nel box e troppo poco spazio e tempo da dedicarvi; logico, una moglie e tre figli hanno le loro esigenze dopotutto!
Le condizioni generali della moto sono dignitose e le cose importanti sono tutte al loro posto. anche se mancano alcuni particolari, mentre altri sono stati modificati o sostituiti con roba simile o non originale; inoltre lo schema di verniciatura del serbatoio non è corretta e alcune cromature si stanno deteriorando.
Insomma, è una moto di base sana, pur contaminata da una serie di modifiche intervenute nel corso degli anni che tuttavia non ne stravolgono in maniera pesante o irreversibile la configurazione generale.
Ma per me, in quel momento, è la più bella e desiderabile di tutte.
Una rapida occhiata ai numeri di serie di telaio e motore (si sa, il rischio di taroccamenti è sempre presente), un breve giro di prova per vedere se il motore gira bene (alle scarse prestazioni dei freni a tamburo bisognerà farci l’abitudine), una certa contrattazione sul prezzo fingendo un certo disinteresse e distacco (a cui il venditore non crede neppure per un attimo) e l’affare è fatto; così alla fine del 1994 la moto è finalmente parcheggiata nel mio box, con una grande, grandissima, intima, soddisfazione personale
Prima di guidare il V7 passano almeno due settimane; un mix tra timore e rispetto reverenziale forse?
Spesso, quando scendo nel box, la metto in moto, la guardo mentre ronfa sorniona con quel minimo incredibile, la spengo, mi ci siedo sopra, la confronto con le foto originali dei “sacri testi” Moto Guzzi.
Nonostante gli anni e gli interventi subiti, la moto trasmette ugualmente una forte sensazione di dignità e di fierezza, seppur appannata, ma l’unica maniera in cui riesco a immaginarla ora è esattamente nella stessa superba condizione in cui uscì dalla fabbrica di Mandello del Lario nel 1973.
Prendo in considerazione l’ipotesi di un restauro professionale completo “chiavi in mano”, ma non posso far finta di non sapere che il costo è eccessivo per le mie tasche; quindi, sfruttando tutta la documentazione di quel modello che mi ero nel frattempo procurato (incluse le foto dell’esemplare originale scattate al museo Guzzi) decido che il restauro me lo sarei fatto, per quanto possibile, da solo.
La lista dei pezzi da trovare, sostituire o restaurare è assai lunga, oltre a mettere in preventivo qualche inevitabile intervento meccanico sulla ciclistica e sul motore, così il 1995 diventa un anno molto intenso passato tra ricerche nei mercatini dell’usato (“Quanto ha detto che vuole per quel clacson?”), pellegrinaggi dai ricambisti (“Forse ho ancora una di quelle leve in magazzino”), salassi dal verniciatore (“Le verniciature fatte da me costano di più ma sono eterne”), annunci fatti pubblicare sulle riviste del settore (“Cercasi borse originali per…”), sfruttamento vergognoso di un carissimo amico, titolare di un’officina di lavorazioni meccaniche, per replicare quei particolari veramente introvabili (“Ho bisogno di una staffa esattamente come questa”) ed altre cose simili.
Ma soprattutto da quest’anno ha inizio il mio pendolarismo a Carate Brianza alla concessionaria/officina/motoclub/ritrovo Moto Guzzi di Bruno (Scola) e del suo meccanico Tiziano (“Il rinvio del tachimetro è andato e questo cilindro sta perdendo il riporto”), dove il mio V7 viene preso in cura dalle loro sapienti mani per quei lavori che io proprio non sarei in grado di fare neppure con tutta la mia buona volontà.
Bruno e Tiziano sopportano in maniera ghandiana la mia asfissiante presenza, quasi giornaliera, alle loro spalle mentre smontano il motore di un Le Mans o rispondono alle mie domande spesso cretine mentre registrano le valvole di un California; tutto questo solo perchè per loro ogni Guzzi è come una figlia ed il legittimo proprietario è spesso considerato alla stregua di un inevitabile accessorio (della moto, ovviamente).
Qui ho modo di conoscere parecchi “malati” di Moto Guzzi, uno fra tutti Davide, un ragazzo di una decina d’anni più giovane di me e proprietario di un V7 850 GT del ’72; il fatto di possedere una moto simile alla mia, oltre a una sua simpatia innata e a un comune interesse “enciclopedico” sulle Guzzi, contribuisce all’instaurarsi di un rapporto quasi immediato di amicizia che aiuta a trascinarmi velocemente in seno a quel gruppo di pazzi con i quali posso dividere la passione per questo mondo che, giorno dopo giorno, sento sempre più appartenermi.
A questo punto occorre aprire una parentesi sulla psiche di quegli strani individui comunemente conosciuti come Guzzisti e guardati con sospetto o (peggio) compatimento dagli “altri” motociclisti.
Se domandate a 10 Guzzisti quali sono i motivi per i quali sono diventati appassionati di questo marchio, probabilmente riceverete 10 risposte diverse, anche se si potrebbero interpretare, più o meno a ragione, come 10 modi differenti di dare sostanzialmente la stessa risposta.
In effetti esistono molte sfaccettature e sfumature sui motivi di questa sorta di simbiosi uomo/macchina che colpisce persone tanto uguali nella passione per le Guzzi, quanto diverse nella vita di tutti i giorni; il sabato pomeriggio, da Bruno, si possono trovare a discutere tra loro l’operaio e il chirurgo sulla più efficace taratura delle sospensioni o l’impiegato di banca e la studentessa universitaria sulla migliore posizione di guida da tenere in curva sul bagnato, mentre l’ingegnere e l’architetto litigano amichevolmente sui pregi della propria moto e sui difetti di quella dell’altro.
Quando poi ci si organizza e si esce tutti assieme, sotto i caschi sparisce ogni differenza e si viene a creare quella sorta di spirito di branco monomarca del quale non sono mai riuscito a cogliere alcun aspetto negativo.
Tirando le somme, si può tentare di riassumere il concetto in una frase, sperando di non essere riduttivo: chi guida una Guzzi, sportiva, turistica o enduro che sia, è intimamente consapevole che ha sotto di se qualcosa di più di un motore, un telaio e due ruote e “sente” che quelle vibrazioni trasmesse ai polsi e allo stomaco quando si spalanca il gas, non sono solo il risultato di una mera sollecitazione meccanica.
Certo, parlare di “anima” in una moto o un marchio forse è un po’ eccessivo ma non credo sia sbagliato ed è indubbio che quel feeling particolare tra le Guzzi e i loro proprietari non solo esiste, ma è pure molto forte.
E’ una cosa che nessuno insegna o impone; o la si sente, anche poco alla volta, o non la si sente per niente, tutto qui.
Sì arriva così all’inizio del 1996 e il restauro è portato a termine; la moto è veramente, ma veramente perfetta, sia a mio parere che a quello di tutta la varia umanità che nel frattempo ho coinvolto, spesso loro malgrado, in questa mia avventura.
Manca solamente un ultimo obiettivo che avrebbe sproporzionatamente ingigantito il mio (già grande) ego; la sfida definitiva, la madre di tutte le omologazioni: la certificazione ASI con l’inarrivabile targa in ottone lucidato; così sbrigo tutte le pratiche necessarie, corredate dalle indispensabili foto e spedisco la richiesta di omologazione.
Qualche mese dopo, il postino mi consegna un pacchetto; per scaramanzia faccio finta che sia un libro (che non avevo mai ordinato) o qualcosa di simile, ma quando apro quella scatoletta di cartone e vedo la famosa targa in ottone con inciso il modello della mia moto, l’anno di costruzione e il numero di omologazione, mi sfugge un risolino talmente ebete che sicuramente fa sospettare al postino la mancanza del pieno possesso delle mie facoltà mentali: probabilmente in quel momento ha ragione lui.