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Breve cronaca di una giornata qualunque

1980
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Di lupastro

Ricordo la donna, quella grassa, di nero vestita, seduta sul legno di una panchina sopravvissuta all’inerzia del tempo, immobile nell’immutabilità della piazza, le mani unite sul grembo e gli occhi fissi a terra quasi a cercare nella polvere le ragioni della propria esistenza.
Ho il timore di pigiare lo start, il pollice indugia sul tasto mentre i miei occhi cercano invano nell’intorno un movimento che giustifichi il mio gesto, qualcosa che spezzi il ritmo sonnolento e ripetitivo che invade l’aria ferma in quel calore che brucia.
Ho l’urgenza di sudare dentro il casco, di allontanarmi contando con gli ammortizzatori le pietre lucide del selciato, di trovare la strada che mi porti lontano, non so dove ma so come.

Devo andare, devo placare la mia fame di asfalto.
I raggi delle ruote si muovono lenti tra i vicoli, sfioro appena la manopola del gas, il cigolio delle molle accompagna il mio passare, da una finestra un bambino affaccia il cuoio bianco di un pallone mentre un gatto randagio esplora i limiti del cortile.

Ho visto un gatto,
un gatto con gli occhi di caffelatte,
girare i vicoli annusando le pietre

ho visto un topo,
un topo contratto dietro le carte,
maledire il mondo
per non saper volare

ho visto un uomo,
un uomo seduto sulle proprie scarpe,
con lo sguardo scaduto
nel nulla guardare

ho visto un gatto,
un gatto con gli occhi di caffelatte,
rizzar la coda
nel rapido balzare

ho visto un topo,
un topo chiuso dentro l’angolo,
maledire il mondo
per non saper volare

ho visto un uomo,
un uomo seduto sulle proprie scarpe,
con lo sguardo scaduto
nel nulla guardare

ho visto specchiarsi negli occhi di caffelatte
il terrore di chi si vide al finale
e ho visto volare in un taglio di sole
un topo ferito che non voleva morire.

In questi vicoli pieni di gatti
esistono molti più topi,
in questi vicoli pieni di topi
esistono molti più uomini,
in questo paese pieno di vicoli
esistono molti più gatti, topi e uomini,
che nulla, intorno, da guardare.
I frutti di cactus appaiono rossi alla forte luce del giorno e le ombre disegnano dure geometrie sulle pareti delle case che si rimpiccioliscono dentro gli specchi retrovisori, davanti a me una striscia grigiastra si arrampica sulla collina, ai lati balle di fieno esposte all’avidità degli insetti sui prati ingialliti.

Inizio ad aumentare la velocità, le buche danzano davanti alla ruota e beffarde si spostano al mio procedere, percepisco nel motore la voglia di esplodere tutta la sua rabbia e sento forte in me il desiderio di assecondarlo.

Ora la strada si allarga, si fa più sicura, le curve sono dolci e invitano ad allentare la presa, gli alberi proiettano a terra oscuri ricami, buchi neri dentro i quali mi tuffo sempre più rapidamente.
Continuo ad aprire mentre sacrileghe le marmitte sporcano il silenzio.
Ho gli occhi sbarrati, fissi sul nastro rossastro che spacca la valle, il sole davanti a me lento cala sull’orizzonte, il contakilometri misura il tempo che mi separa dal mare.

Gocce di sudore mi calano dalla fronte, girano intorno alle orbite e salate si depositano sulle mie labbra, le mani sono bagnate dentro i guanti e la pelle dei pantaloni mi si appiccica sulle gambe,
la polvere sale da terra e vela la visiera.
Mi sento inghiottito dal nulla, mentre il mio polso continua ad aprire.
La strada, sempre diritta, separa i ruvidi ulivi e le righe bianche veloci mi corrono incontro, sembrano arrotolarsi sotto le ruote, l’aria spinge forte il mio petto come una mano che vuole separarmi dalla sella e il casco butta la mia testa dentro le spalle.

Il motore tuona, odo sfogarsi la collera dei due cilindri, i paracarri sfilano lasciando bianche scie sui bordi dei fossi mentre il cuore pompa sangue alle tempie martellanti.
Dallo stomaco mi sale un grido, prima lento poi urgente, apro la bocca e urlo dentro il casco, urlo a spaccare la gola, urlo a coprire il rombo, urlo nel nulla a raggiungere l’orizzonte che lontano si bagna nel mare.
E l’urlo mi copre, mi avvolge, vorace mi ingoia per poi vomitarmi, sfinito e ubriaco, sul confuso limite delle mie emozioni.

Esausto mi siedo sul bordo del mondo.
Seduto fisso il tormentarsi dell’acqua.
Seduto ascolto le chiacchere dei gabbiani.
Il cielo si scurisce, mentre l’onda, frantumandosi sullo scoglio, mi rimanda il fragore di mille pesci d’argento.

Questo è un buon posto,
un posto giusto per fermarsi a dormire,
un posto amico per continuare a sognare.