Di Cesare Abbate
Partimmo al sorgere del sole, nel cuore delle montagne che catturano il vento per coprire col loro manto le piccolissime città, tra le nuvole che quasi ci sfioravano mi sentii protetto come un bimbo nell’incavo dell’ utero materno. Durante il tragitto udivo come una eco lontana di antiche voci semicoperta dal rombo della moto. Lo sguardo che anticipava ogni curva era la sorta di un antico esorcismo, la mente in direzione delle montagne violate dall’empia strada fantasma. Ad ogni sguardo pellegrino pareva apparire e riflettersi all’infinito, come in un gioco di specchi, la stessa identica curva: la curva dei miraggi che conduce per piste fantasma in una sorta di inferno, nel quale non vorresti mai arrivare…
Viaggiamo, inizialmente, per perderci. E viaggiamo, poi, per ritrovarci. Viaggiamo per aprirci il cuore e gli occhi, e per imparare più cose sul mondo di quanto possano accoglierne i nostri giornali. E viaggiamo per portare quel poco di cui siamo capaci, nella nostra ignoranza e sapienza, in varie parti del globo, le cui ricchezze sono variamente disperse. E viaggiamo, in sostanza, per essere giovani e sciocchi, per rallentare il tempo ed esserne catturati…
…mai come sulla strada ci convinciamo di quanto le nostre fortune siano proporzionate alla difficoltà che la precede. E mi piace l’enfasi su una vacanza morale perché ci abbandoniamo alle nostre abitudini etiche, così come la sera ci abbandoniamo nel nostro letto. Pochi dimenticano il nesso tra viaggio e travaglio. E io so di viaggiare in gran parte alla ricerca di una sana sofferenza, la mia, che voglio sentire, e quella degli altri, che ho bisogno di vedere. Viaggiare in questo senso ci conduce ad un migliore equilibrio tra saggezza e compassione, fra vedere il mondo chiaramente e sentirlo veramente. Perché vedere senza sentire può portare all’ indifferenza, mentre sentire senza vedere può renderci ciechi…