Di Alberto Sala
Incredibile.
A volte succede.
Anche se francamente non ci credevo ormai più.
Chissà, sarà stato il caldo, o l’orario.
Ma certo non mi sarei mai aspettato di farmi parecchi dei 400 km di domenica senza traffico.
Oserei dire quasi senza auto. E anche senza moto. Roba da sentirsi solo, per un lombardo abituato a viaggiare a cavallo della striscia bianca (non quella che si tira, minchioni) o in piena ‘corsia dei rifiuti’ come si potrebbe definire ormai la corsia d’emergenza delle autostrade, dove sei quasi certo, se riesci a cavartela con le travi, i palloni da calcio, le bottiglie e i resti decomposti dei copertoni scoppiati, di rimanere infilato a tradimento da un bullone malefico nel gommone da 200 euro.
Già da tempo bazzico il bresciano. Non nel senso che ho un amante dalle “ù” pronunciate, ma nel senso del territorio. Come un segugio alla ricerca della preda, in questo caso un pezzo di nastro asfaltato car-free, quando posso mi butto (a tratti anche letteralmente) alla ricerca della strada perduta. Non prima di aver passato ore iperscrutando la cartina del Touring del Nord Italia, ipotizzando, fiutando, scovando trasversali e obliqui percorsi, possibilmente seguendo i bordi verdi che anche nella sua iconografia significano bei paesaggi.
Ma non escludendo anche apparenti anonime strade gialle con tanto grigio attorno. Soprattutto dopo aver scoperto il tratto Idro-Lumezzane.
Una strada che i bordi verdi se li scorda. E forse, in fondo, a lei non importa una cippa.
E’ da questa zona, generalmente conosciuta solo dai cottimisti per via delle tante ferriere presenti, che parte il tour di domenica.
Breve salto autostradale per levarsi di torno la fastidiosa e torrida pianura, uscita a Palazzolo e in poche rotonde arrivo a Iseo. Si fa sul serio (e anche sul Serio) da qui.
Salendo verso Polaveno lasciandosi il lago alle spalle già si comincia a respirare. La densità auto/chilometro quadrato si fa da 7.540 circa (Twingo più Twingo meno) a meno di dieci. Anche la calura comincia a ghermire meno. Basta salire un po’ di quota, anche senza Quota. Difatti stavo con Centauro Pupa®. Ancor più discinta di freni dopo Adria (che è un circuito massacrante per i liquidi DOT-10), ma non a tal punto da essere veramente pericolosa: si può ancora domare (quando serve, s’intende).
Dopo Polaveno si piega verso Gardone, che giustamente fa rima con stradone. Largo quasi come un’autostrada devo dire che aiuta a passare quasi indenni da semafori. Poi, una decina di chilometri addentro alla Valtrompia, appena prima che si possa definirla ‘Alta Valtrompia’, svolta a destra alla chiesina (c’è spesso una svolta in prossimità della chiesina: mica tutti reggono le omelie) e via in salita, in direzione Castro. Che a dispetto del nome non taglia nessuna goduria, anzi: la colonnina dell’indicatore del traffico segna un “non pervenuto” perfino di moto: le curve si fanno più ravvicinate inizialmente, per poi, scollinato un timido passo, distendersi in “Best Centauro Style”: sapete (o voi sommi fortunati cavalcanti tale mostro), quello stile di curva così meravigliosamente indossato dal nostro miglior cavallo, ove con nitriti e squotimenti giouiousi adora gettarsi a ventre basso. Non siamo ancora in presenza del miglior asfalto della giornata, ma già si assapora la libertà dalle catene catalitiche e multijet che ti assalgono anche in altre valli lombarde.
Trapassato Castro, siamo ormai in prossimità del secondo bacino lacustre odierno, quello di Idro. Ci arrivo attorno alle dodici e trenta, fors’anche tredici (bello scordarsi del tempo): l’orario preferito per asserragliarsi a tavola. Ergo: strada costiera assolutamente sgombra! VIVA!
La strada costiera occidentale (precisazione inutile: non esiste quella orientale) del lago d’Idro è tanto gettonata dalle auto quanto bella. E’ un bel misto frutta, un po’ lento ma spesso sfocia nel veloce, a tratti velocissimo, con a destra naturalmente lo smeraldo del lago sempre presente. Senza fare il minchione mi rendo conto che in un attimo l’acqua è sparita e sono già al bivio per Madonna di Campiglio o per il lago delle fiabe di Ledro. Memore della struggente bellezza delle pose plastiche raggiungibili col suo asfalto rossiccio, viro (considerate le dimensioni il termine appare appropriato) a destra e dopo aver attraversato un paese di cui non colgo il nome bensì il profumo e la luce, che mi ricordano i paesini friulani assolati della mia infanzia, poggio le gomme sul nastro color amaranto, puntinato ogni tanto da qualche tipico scintillio e dal retrogusto fruttato (dopo il corso di sommelier bitumoso alla “Centro Bitumati 2000” di Martinengo mi lancio con malcelato snobismo nei distinguo) e comincio la degustazione. Leggermente disturbato da due villici su 748 e 996 dediti a spaccare la minchia percorrendo avanti e indietro sempre lo stresso tratto iniziale della via per la valle di Ledro, proseguo nella mia ripresa di confidenza con le pieghe per lasciarmi alle spalle (soprattutto la destra) il post-trauma. Sì, perchè il problema non è tanto il trauma, ma la lontananza conseguente dalla moto: è questo lasso di tempo che ti rovina e ti insinua paura. Naturalmente con tutta calma, alla ricerca della spensieratezza perduta. Così, scrollata la polvere, dò un colpo di frusta fino ai campi di fiori che aprendosi fanno da preludio a questo angolo di paradiso trentino (si avverte assai il passaggio di regione) corollato da un laghetto assolutamente delizioso, cui difficilmente manco visita annuale.
Ormai si è fatto il giusto naturale orario di pranzo anche dei minchia, per cui mi levo con enorme soddisfazione gli strati di pelle nera per svaccarmi in costume e asciugamano in riva al lago, rigorosamente in ombra.
Ma non sono qui per raccontarvi del relax post-ruttino e relativo pisolo: c’è ancora tanta strada da fare. Sperando sia ancora libera e ribelle.
Il tempo quando si è soli passa più lentamente e offre più possibilità: perchè tornare subito dalla Gardesana? Proviamo a vedere un po’ com’è il lago di Tenno (e soprattutto, il relativo necessario sentiero d’asfalto). Ci penserà poi la statale verso Arco, dopo Stenico a riportarmi a Riva (del Garda). Una volta uscito dal tunnel, passaggio ‘doganale’ tra val di Ledro e Riva, salgo a nord con ai piedi sempre asfalto rosso. E poco o null’altro. Cambiano i profumi, non il piacere di scivolare sulle curve in sequenza, fino allo smeraldo intenso e spettacolare del quarto lago odierno, piccolo e invitante. Dopo un ultimo sguardo all’acqua dallo specchietto retrovisore, la strada sale dolcemente fino ai settecento metri dal mare di massima escursione, scollinata la quale si apre improvvisamente un panorama largo e vasto, di quelli che capitano di rado. Bellissimo.
Scendo a fondo valle da una gola di granito e da tornantoni larghi come Fange per poi assaporarmi il profumo delle tante vigne lungo la statale per Riva, dove poi imbrocco la Gardesana occidentale, strada meravigliosa e impervia, con le sue strette e buie gallerie abbagliate all’uscita dai risvolti luminosi che sole e vento disegnano sul pelo del lago di Garda, accolto dal profumo intenso di sempreverdi e di arbusti al sole di Limone, vera perla dell’alto Garda. Qui il caldo mi impone una doverosa sosta per abbeverarmi abbondantemente. Sotto la tuta di pelle si sta raggiungendo la temperatura di fusione del piombo. Urge un rimedio.
Lascio il fascino della Gardesana per salire a destra, in prossimità di Gargnano, per la val Toscolano, e lambire il sesto lago della giornata, quello di Valvestino, alla ricerca di fresco e di strada pura. E trovo entrambi. Questo tratto non è definibile ‘misto stretto’: di più. Per parecchio il tratto più lungo di rettilineo non supera i dodici metri. Comincio a dondolare a tal punto da dovermi inghiottire una xamamina. Il cambio smette di servire ad alcunchè: fino all’approssimarsi del lago si dosa solo la manopola del gas (a volte mi chiedo perchè gas, visto che non vado a GPL, ma nel dubbio tengo aperto). Se qualcuno mi vedesse da dietro potrebbe equivocare, dato che il susseguirsi di curve è talmente fitto da farmi sculettare come Sylvester alla vista di Marc Almond. Ma chi vuoi che mi veda? Non c’è quasi nessuno. Curiosamente poi per quasi tutto il tragitto le poche moto pervenivano tutte in senso opposto.
E quando arrivi a Idro, quando diresti ‘è finita’, quando sei già sfamato abbondantemente di curve e solitudine motociclistica, ti resta il ritorno del primo tratto bresciano, quello (visto a rovescio) di Castro e della discesa a Iseo. Col sole di fronte, che disegna dentro la tua visiera i magici effetti del filtro “Lens Flare” di Photoshop a giocare con le ombre degli alberi nelle curve a sinistra, ti ri-lanci nei curvoni in appoggio in solitaria beatitudine, godendoti appieno il piacere vibrante del quattro valvole sempre in forma.
A tal proposito, in precedenza, sulla Gardesana ho dimenticato un simpatico episodio, presunto ma credo assai probabile. Avevo raggiunto una R1 seconda serie con zainetto lillipuziano appeso (buon per lei, su quella moto essere microbi è un vantaggio), dall’autista allegrotto. Per un pò procediamo in trenino fino alla prima galleria, dove, per recuperarlo per via delle auto difficili da superare decido di spalancare un po’ la manetta mettendo a conoscenza degli astanti dentro al tunnel cosa succede quando si ruota insistentemente la manopola destra in associazione alla micidiale accoppiata Termignoni-Mistral. Ehm… un lieve sorrisetto obliquo, misto di imbarazzo e piacere mi si stampa in volto, e la R1 si fa improvvisamente da parte. Per tutta la seguente permanenza sulla Gardesana (soprattutto in coincidenza delle ulteriori gallerie) preferirà parzializzare il gas per starmi dietro. Al che, ipotizzando lo scopo della manovra, naturalmente decido di proseguire la Sinfonia in G dur, Opera Bicilindrica 4V, etichetta La Voce del Minchione (con Iosca al posto del cane accanto al megafono), portando a tratti l’impeto a ottomila e cinquecento giri. Non c’è teatro migliore al mondo delle gallerie a cupola della Gardesana. Il termine ‘assordante’ va ridefinto completamente. La pienezza orchestrale è da far impallidire i Berliner. Mi sono immaginato il ragazzo sulla R1 contento dei suoi cavalli rauchi ma estasiato dai miei pochi ma intonati da Dio. Chissà se sarà stato davvero così?
Sono le 19 ormai, dopo l’ultimo tratto di strette curve si staglia in controluce il lago d’Iseo dove discendo rapidamente (sempre senz’auto attorno), per piombare in pieno rientro da weekend milanese al lago in autostrada. Grazie al cielo per poco, con gambe e ginocchia dolenti ma felice di aver scovato un raggio verde nel tramonto bresciano.